Cibo e identità
di Serena Guidobaldi
Eris Edizioni, luglio 2021
64 pp.
€ 6 (cartaceo)
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Grass*
di Elisa Manici
Eris Edizioni, giugno 2021
64 pp.
€ 6 (cartaceo)
Marta Olivi
Grass*
di Elisa Manici
Eris Edizioni, giugno 2021
64 pp.
€ 6 (cartaceo)
Per chi oggi vuole informarsi su questioni relative ad attivismo, pari diritti, società, cultura materiale, non è affatto facile gettarsi in libreria e uscire con il testo che fa proprio al caso loro. In particolare, uscire dal reame del teorico ed entrare nella vera vita, fatta di contesti reali, complicati, ma proprio per questo affascinanti, è la sfida che la saggistica divulgativa di oggi deve affrontare; sfida raccolta dalla collana BookBlock di Eris, piccoli libri sotto le 64 pagine che, a un prezzo quantomai accessibile, forniscono mattoncini su cui fondare l’inizio di una comprensione agile e immediata del presente, da approfondire poi con altre letture, o chissà, con l’azione quotidiana o l’attivismo in prima persona.
Poiché la brevità di questi testi li rende simili alle proverbiali ciliegie, ne ho scelti due da recensire in dialogo: “Cibo e identità” di Serena Guidobaldi, e “Grass*” di Elisa Manici. Due approcci diversissimi, più accademico il primo, più attivista il secondo, più culturale il primo, e più queer il secondo; ma entrambi, distillando un’enorme numero di letture e influenze culturali afferenti alle sfere più disparate ci forniscono risposte da due punti di vista diversi a un simile interrogativo: in che modo la nostra alimentazione e il corpo che ne è (parzialmente) il risultato vengono determinati da elementi che si trovano all’esterno da noi e che, ciononostante, esercitano su di noi forze tanto inarrestabili quanto, a volte, invisibili? Quali sono le forze economiche, culturali, stigmatizzanti che ci spingono ad alimentarci e a considerarci in un certo modo, e come possiamo tornare a riprenderci possesso della materialità condivisa dal cibo e dal nostro corpo come mezzi identitari in mano nostra, e solo nostra?
Libri diversi, interrogativi simili: mentre Manici, concentrandosi sul corpo grasso in sé, arriva al cibo in un secondo momento, sottolineando anche quanto sia problematico affidarsi al legame a doppio filo tra cibo e corpo come viene prospettato di solito da stereotipi e narrazioni superficiali, Guidobaldi, che invece si concentra primariamente sul cibo, funge in realtà da ideale punto di partenza per capire quanto il cibo è pieno di connotati identitari. Per questo motivo, se volete lanciarvi come me in una lettura in tandem, vi consiglio questo ordine; ma anche l'opposto è senza dubbio un'opzione valida.
Elisa Manici, nel suo libro, racchiude infatti un vero e proprio mondo, congiungendo un’efficace introduzione alla storia del fat activism e in particolare del queer fat activism con pillole di esperienza vissuta, atte a farci capire come funziona lo stigma che nell’Occidente contemporaneo opera sul corpo grasso. La consapevolezza che l’autrice fa nascere in noi di questi schemi mentali che attiviamo senza farci caso è poi strumentale a fornirci potenziali strategie di uscita. L’idea che il corpo sia il diretto risultato della nostra alimentazione, e il sottotesto di autocontrollo, forza di volontà, capacità di restrizione che questo comporta; il modo particolare in cui le donne e la comunità queer sono colpite da queste stigmatizzazioni; in un percorso che va da posizioni più teoriche e filosofiche ai testi che hanno fatto la storia del fat queer activism, Manici ci guida in sessanta pagine di delicato equilibrismo tra azione e teoria, senza mai dimenticare di collocare i corpi in contesti sociali (e necessariamente anche economici) chiari e riconoscibili, tra USA e Italia, tra anni ’90 e contemporaneità.
Se Manici, in apertura del suo libro, tocca marginalmente i concetti di infelicità e frustrazione, accennando al potere che i canoni di bellezza hanno nell’influenzare il nostro status emotivo, sia lei che la Guidobaldi puntano a smantellare nel lettore la visione ingenua delle nostre emozioni e della nostra autopercezione come qualcosa di analizzabile in modo isolato, svincolate dai contesti in cui sono inserite. Per questo, nonostante i punti di partenza così diversi, anche la Guidobaldi nel suo saggio parla di intuitive eating, consumismo, stigma sociale; e la sua analisi delle tendenze alimentari dagli anni ’90 a oggi, incentrata su come il cibo viene percepito (e ci viene venduto) come qualcosa in grado di forgiare la nostra identità, viene perfettamente complementata dalla riflessione di Manici su come l’identità femminile e queer interseca altri tipi di corpi non conformi e portatori di stigma, come è appunto il corpo grasso.
Come dice Serena Guidobaldi, dopotutto, il cibo può servire come mezzo di creazione identitaria, se non fosse che la spaccatura tra chi siamo e chi vogliamo essere viene riempita dall’onnipresente sistema capitalistico, che ci vende ciò che pensiamo ci serva per diventare qualcos’altro, qualcosa che ci piace di più di chi siamo ora. Ma se il marketing in cui siamo immersi ci costringe a un pendolo tra l'edonismo più sfrenato e il continuo monito ad autoregolarci, nell’alimentazione e non solo, mentre il nostro corpo viene sempre di più visto come un progetto da curare e scolpire, sia la Guidobaldi che la Manici concordano nello sconsigliarci di dare la nostra identità in pasto (è il caso di dirlo) a un mercato che tra cibi biologici, tè dimagranti e allenamenti ci vuole vendere il nostro noi ideale. Che alla fine è sempre un noi conforme. L’identità che traiamo dal cibo e dalle specificità del nostro corpo, grasso, magro, conforme, binario o non binario, non si trova in una materialità commercializzata o in uno standard esterno, come la madeleine di Proust che al terzo morso smette di suscitare il ricordo. L’attivismo di Manici, la ricerca di Guidobaldi, il nostro piacere nel metterci un bikini o la moka del mattino: è qui che possiamo ritrovarci e riconoscerci davvero. In un percorso, e non in un prodotto.
Marta Olivi
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