Lontananza
di Vigdis Hjorth
Fazi editore, settembre 2021
Traduzione di Margherita Podestà Heir
pp. 374
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Johanna se n'è andata dalla Norvegia molti anni fa. Ha abbandonato gli studi in giurisprudenza – voluti dal padre – ha lasciato il marito – approvato dalla famiglia – ed è andata in America dove è diventata un'artista, una pittrice molto apprezzata. Ora la sua Norvegia la richiama per organizzare una mostra retrospettiva del suo lavoro e lei accetta, consapevole di tornare nella città dove vivono ancora sua madre e sua sorella che non vogliono parlare con lei. La madre respinge le sue chiamate, sua sorella l'ha sempre e solo laconicamente avvisata dei grossi eventi, almeno fino a qualche tempo prima quando i rapporti si sono spezzati definitivamente. Perché gli artisti pescano dal loro vissuto per alimentare la loro arte, la mettono in scena senza pensare a cosa si potrebbe interpretare e la mancanza di gratitudine di Johanna, che si è quasi inventata un'infanzia infelice come legittimo background di artista, è stata troppo grave e profonda per essere perdonata. A dispetto di quanto la logora parabola del ritorno del figlio prodigo ci racconta.
Esco e mi sdraio sullo spiazzo erboso, chiudo gli occhi e poco alla volta percepisco il contatto fisico con il muschio che si estende ruvido sotto di me, l'umidità che si leva dal terreno e che lentamente mi bagna penetrando attraverso la giacca e i pantaloni impermeabili, mentre sprofondo sempre più dentro me stessa e sento il peso fradicio della terra che mi attira a sé, e di colpo capisco che non dobbiamo rivolgerci verso il cielo, ma verso il basso. (p. 82)
Il rapporto madre-figlia è stato sviscerato da ogni possibile angolazione nelle forme di narrativa e di arte in generale: è il primo legame, quello che dovrebbe essere il più forte, che rimanda in maniera inconscia e mistica a quello con la Terra. Eppure, a dispetto di tutti gli studi, i ragionamenti, le storie raccontate nel corso dei millenni, la sua complessità sembra ancora sfuggire, non si afferra con pienezza tutta la gamma di sfumature. Perché c'è amore incondizionato, desiderio di approvazione, convinzione dell'infallibilità della mamma, rifiuto di alcuni aspetti che temiamo di vederci rinfacciare un giorno – basti pensare a come la frase "sei come tua madre" sia usata più per ferire che come metro di paragone lusinghiero – e la difficoltà nell'accettare che oltre a essere "madre" la donna che ci ha messi al mondo è una persona con tutti i difetti e le piccinerie del caso.
Nel suo primo romanzo, Eredità (trovate qui la recensione), Vigdis Hjorth ci aveva presentato una famiglia spaccata per una motivazione con una sua gravità oggettiva. In Lontananza torniamo nel gorgo dei rapporti familiari, in questo caso tutti al femminile visto che le attrici in campo sono Johanna, sua sorella Ruth e la loro madre, ma proprio per la proteiforme natura del rapporto che lega le donne, anche il romanzo non si focalizza su un unico e riconoscibile problema, ma cerca di orientarsi tra i vari livelli del rapporto madre-figlia.
Il conflitto con la figura genitoriale, a un certo punto della crescita, è normale. Senza scomodare complessi dai nomi mitici, nella formazione di un individuo indipendente lo scontro è inevitabile. Ciò che succede tra Johanna e la sua famiglia ci viene presentato immediatamente: lei ha lasciato la Norvegia per scappare con il suo insegnante di arte, ha dipinto quadri definiti "ignominiosi" e non si è presentata al funerale del padre perché è stata tagliata fuori dalla famiglia. A differenza della sorella Ruth che è sempre rimasta al fianco della madre in un gioco di ruolo in cui Ruth è il bastone della vecchiaia della madre e la madre si rende quasi più debole per legare a sé la figlia, Johanna è la ribelle, quella che ha ereditato i capelli rossi della madre e che ha uno spirito indomito, il fuoco di Hamar, che vuole che lei viva una vita libera. Non sembra esserci nulla di così irreparabile soprattutto perché, all'inizio della storia, Johanna è ormai sessantenne e madre a sua volta e ritiene che il passato si possa aggiustare. Desidera riallacciare i rapporti, capire meglio sua madre, immaginare la sua quotidianità, crearla nella sua mente. Il pedinamento a cui si sottopone è volto proprio a questo: facendo la posta davanti ad Arne Bruns gate 22, il nuovo indirizzo della madre, Johanna immagina, ricostruisce una visione di lei che guarda i documentari, che va dalla parrucchiera e racconta di sua figlia. Arriva a sottrarle la spazzatura per avere qualcosa di tangibile a cui appoggiare le sue supposizioni che sono all'inizio piene, se non di speranza, almeno di raziocinio sulle possibilità del loro rapporto.
Che lei non abbia risposto alla mia chiamata non significa che io sia collegata a una qualche forma di sentimento o emozione. Mia madre desidera soltanto evitare di rapportarsi con me. Ha sicuramente imparato dei metodi per evitare che riaffiorino ricordi che hanno a che fare con me. È comprensibile vista la situazione. (p. 33)
In questo lungo e a tratti estenuante inseguimento in cui tutti, dalla protagonista al lettore, vogliono la grazia dell'incontro, la liberatoria catarsi di uno scontro diretto, si inanellano i ricordi del passato, dei piccoli momenti che hanno scavato il solco in un rapporto che non si può ricucire. Dalla rottura di un vaso regalato dalla suocera poco simpatica, alla menzogna per non andare a fare una gita sulla neve, a un disegno poco riuscito che fa bollare Johanna come strana, tutti questi piccoli eventi, custoditi sul fondo di una scatola di sigari dove la bambina tiene i suoi oggetti più preziosi, sono tesi a un'unica rivelazione: che le madri sono donne, sono persone piene di difetti. Quando la maschera della perfezione materna cade non si sa chi sia più sconvolta. Se Johanna, per la quale è cosa rara e incomprensibile che un genitore non perdoni un figlio, o la madre che è stata sorpresa a nudo dagli occhi acuti della figlia e quello che ha visto attraverso quegli occhi non le è piaciuto per niente.
Se si sapesse, se da giovani si capisse quanto è cruciale l'infanzia, non si avrebbe mai il coraggio di avere figli propri. (p. 219)
Così ragiona Johanna che del suo rapporto con il figlio si interroga, ma convinta di aver fatto, nei limiti delle sue possibilità, le mosse giuste. Forse per lei il momento della rivelazione non è ancora arrivato, ma quando di tua madre ti resta solo il modo giusto per cuocere gli spaghetti di tutto quello che è stata la vostra vita insieme vuol dire che la lontananza è davvero troppo profonda da colmare.
Giulia Pretta