Mentre alcuni sedicenti fan delusi accorrono a spiegarci come e perché Tre piani, in questi giorni al cinema, non sarebbe un film di Nanni Moretti, io penso invece che sia il film che il quasi settantenne regista - invecchiato quel tanto da non aver paura di maneggiare una materia troppo sentimentale - voleva e poteva permettersi di fare.
Tre Piani di Eshkol Nevo NeriPozza, 2017 pp. 253 € 17 (cartaceo) € 9,99 (ebook) LEGGI LA RECENSIONE ACQUISTALO SU AMAZON |
Semmai, la sceneggiatura del film non è di (e, apparentemente, anche "da") Nanni Moretti. Infatti per la prima volta la prende da un libro, molto bello, Tre piani di Eshkol Nevo.
E non è un fatto trascurabile. Utilizzare la storia di qualcun altro è letteralmente indossarne i panni. Nell'epoca in cui siamo tutti stilisti, designer e critici cinematografici presso noi stessi, sicuramente qualcuno non riesce a farsi una ragione del perché, invece di mettere in scena tutte le proprie nevrosi e idiosincrasie - specialmente perché Nanni Moretti, sulle sue nevrosi e idiosincrasie, passioni e disincanti, ci ha costruito una carriera, e prima che andasse di moda - stavolta abbia potuto scegliere di fare un film come questo. Di cambiare strada, di scartare la prevedibilità, la sua stessa, per così dire, memificazione.
Nanni Moretti è uscito dal meme.
Perché poi non avrebbe dovuto farlo e quali requisiti un regista debba soddisfare per poter annoverare un film girato da lui fra i suoi film legittimi, questa sarebbe una questione interessante da chiedere ai puristi della nannimorettità.
C'è da dire anche che nel frattempo quello che Moretti metteva in scena nei suoi primi film, si può fare tranquillamente sui social - tant'è che persino il riluttante Nanni ha aperto un profilo Instagram dove ci regala corti già cult quali quello per la riapertura della sua sala, il Cinema Sacher, a Roma, dove risponde al telefono dando indicazioni sui film in programmazione e quello col cast di Tre piani che si prepara alla prima cantando Soldi di Mahmood.
Per quanto riguarda il grande schermo invece, lasciata alle spalle ormai da decenni la maschera Michele Apicella, la previsione apocalittica della fine della seconda Repubblica del Caimano e della crisi ecclesiastica di Habemus Papam, Nanni Moretti sembra aver deposto del tutto il personaggio Nanni Moretti, anche rappresentato per interposta persona, e aver seguito l'esortazione rivolta al suo alter ego femminile in Mia madre (del quale avevamo già parlato qui): "Margherita, fai qualcosa di nuovo, di diverso. Dai, rompi almeno un tuo schema. Uno su duecento". Affidandosi a una storia non ideata da lui.
Volutamente non sono andata a rileggere il libro di Nevo (che avevo scoperto tre anni fa, quando venni a sapere che Moretti ne avrebbe fatto un film e che Claudia Consoli ha approfondito qui). Ne ricordo a grandi linee la trama, alcune scene, alcune frasi che sono rimaste lì dove devono stare le frasi di un romanzo che hai molto amato.
Lo avevo trovato emozionante, certo a tratti patetico, ma nell'accezione migliore di questo termine, e capace di trattare i sentimenti umani, anche nel loro risvolto più oscuro, con quella sensibilità che mi sembra tipica degli scrittori israeliani, come anche David Grossman e Amos Oz.
Non l'ho riletto, dicevo, perché in questo film non cercavo esattezza filologica.
Non è un libro, Tre piani, (in Italia edito Neri Pozza) che si possa riprodurre con esattezza sullo schermo. Ma è un libro che, per rispettarlo, per rimanere onesto, puoi solo cercare di riprodurne l'essenza.
E in questo credo che Moretti sia riuscito. Ha preso la materia incandescente che sono i rapporti umani descritti in un libro che parla solo di questo, dei rapporti umani degli abitanti di un grande palazzo di Tel Aviv, e gli ha dato vita.
E dunque non importa poi molto se i personaggi del film vengono trasportati in un quartiere chic di Roma e se hanno le facce, i gesti e le movenze di alcuni attori legati a ruoli un po' ripetitivi del repertorio cinematografico italiano come Margherita Buy, Riccardo Scamarcio, Alba Rohrwacher.
La forza del testo di Nevo, e del film, è che quei personaggi sono la versione romanzesca dei nostri vicini di casa, la gente che incontriamo sul pianerottolo, ma anche in ufficio, a scuola, in ospedale, in tribunale. Vite più o meno ordinarie e infelicità ciascuno a modo suo.
Coppie con un figlio sbalestrato, che non si sa se la colpa è della loro estrema rigidità o del figlio che sarebbe comunque cresciuto stronzo, giovani mamme tristi e sole che immaginano corvi in cucina e fuggiaschi nel salotto di casa, padri fuori di testa dall'ansia e adolescenti che giocano alla Lolita finché tutto non sfugge di mano, vecchi che, usciti per comprare un gelato, si perdono per strada e piangono dalla paura.
In fondo, esseri umani che ci fanno sentire meno soli, come se potessimo comporre il numero della loro segreteria telefonica e confessargli ciò che non abbiamo mai avuto il coraggio di dire a voce alta.
Esseri umani che stupefatti, in una mattina di sole, guardano passare in strada un gruppo di danzatori di tango rapiti dalla musica. E restano lì, coi capelli mossi dal vento, in un attimo di seppur esitante bellezza. Una scena, questa sì, che è la firma del regista che volevano quelli che volevano "un film di Nanni Moretti", e che arriva solo alla fine.
Come fosse un colpetto di gomito del dispettoso Moretti che, stavolta, non solo ha seguito il famoso consiglio di Dino Risi di spostarsi e farci vedere il film, ma che si è letteralmente eliminato, scegliendo di interpretare un personaggio che muore a metà della storia.
E il film che ci ha lasciato vedere - che si riallaccia idealmente a quel discorso sul dolore, sul lutto e sulla genitorialità che metteva in scena ne La stanza del figlio e che non gli era del tutto riuscito in Mia madre (altri film non di Nanni Moretti, evidentemente) - potrebbe essere, sì, il film di uno che, nell'epocale match arbasiniano, sarebbe stato invitato ad accomodarsi dalla parte di Monicelli. Parte che comunque nessuno si sognerebbe mai, Moretti incluso, di disprezzare.
Ma il suo più grande talento non è forse sempre stato quello di sapere da che parte stare alla propria età e di saper interpretare, con questa lente, i tempi che corrono?
I nostri, come questo film, mancano innegabilmente di ironia e sembrano opachi, cupi e senza scampo. Eppure, a quasi trent'anni di distanza da Caro Diario, Nanni Moretti sembra ancora credere nelle persone, a una minoranza di persone. Questa, sembra dirci, è l'unica speranza che ci è concessa.
Giulia Marziali