di Joan Didion, prima edizione italiana 2006
Il Saggiatore
Traduzione di Vincenzo Mantovani
pp. 240
€ 19 (cartaceo, 2021)
€ 6,99 (ebook)
di Joan Didion, prima edizione italiana 2012
Il Saggiatore
Traduzione di Valentina Vezzoli
pp. 204
€ 19 (cartaceo, 2021)
€ 9,99 (ebook)
“La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita. (L’anno del pensiero magico, p. 6)
È molto difficile parlare di L’anno del pensiero magico e Blue nights senza metterci qualcosa di me stessa, della mia vita, di come le parole di Joan Didion mi scortichino a ogni rilettura. La prima volta che mi sono avvicinata a L’anno del pensiero magico era tutto molto diverso, quel dolore che raccontava, quel tipo di intimità che chiedeva al lettore, restavano in buona misura parole su una pagina, un canto di dolore struggente ma estraneo, a cui non volevo avvicinarmi. Non è più così. Rileggo le stesse pagine ora che sono più adulta e certe riflessioni intorno al dolore e alla perdita non mi sono estranee. In Italia l’opera di Joan Didion è pubblicata da Il Saggiatore che in questi mesi ne sta curando anche nuove edizioni come nel caso de L’anno del pensiero magico e Blue Nights: due testi scritti a distanza di anni (il primo nel 2005, l’altro nel 2011) ma legati nel dolore, nella tragedia privata di Didion.
Forse è opportuno partire da qui, dall’intreccio inestricabile di vita e arte, giornalismo e letteratura, che caratterizzano da sempre la sua scrittura, lo sguardo soggettivo con cui ha dato forma lei stessa al new journalism statunitense. Non c’è distanza, non c’è confine, non così netti almeno. Non c’è nei reportage né nelle pagine dei romanzi in senso stretto, non c’è nei pezzi scritti in cinquant’anni di carriera giornalistica, non può esserci in queste pagine che raccontano la perdita, la mancanza, il dolore, lo sconcerto. L’anno del pensiero magico (premiato con il National Book Award per la saggistica) nasce pochi mesi dopo l’improvvisa scomparsa dell’amato marito John Dunne, nel vuoto che quella mancanza porta con sé, nell’incapacità di elaborare il lutto in un momento già oltremodo difficile con la figlia Quintana gravemente malata e che a distanza di due anni sarebbe mancata; Blue Nights, il colore di certe sere a New York prima del solstizio d’estate, inizia cinque anni dopo la tragica morte della figlia, dall’abisso di disperazione e sensi di colpa. Nati dal dolore, entrambi i libri e di dolore per forza di cose intrisi, scavano nel caos di sentimenti e pensieri attorcigliati, nel ricordo, nei presagi, nelle sensazioni contrastanti che si accompagnano a certe situazioni. Scavano, quindi, nella vita di Didion, nella sua personale sofferenza, ma scorticano anche noi, che abbiamo o meno familiarità con la perdita, per la loro brutale sincerità, per la bellezza del ricordo. Quello che riesce a fare Didion con questi due libri è una cosa rara e preziosissima, che riesce a pochi: cerca sé stessa dentro le parole, la propria versione delle cose e confronto – non uso a caso questa parola invece di elaborazione – con il dolore, tenendosi alla larga da frasi da manuale di auto aiuto, ipocrisia e sterili consigli. Leggiamo queste pagine col duplice incanto di trovarci davanti a una scrittrice capace di raccontare una storia intima e universale insieme e, allo stesso tempo, come una lunga lezione di narrativa che affonda le mani nel dolore.
Questo è il mio tentativo di raccapezzarmi nel periodo che seguì, settimane e poi mesi che cambiarono ogni idea preconcetta che io avessi mai avuto sulla morte, sulla malattia, sul calcolo delle probabilità, sulla fortuna e sulla sfortuna, sul matrimonio e sui figli e sulla memoria, sul dolore, sui modi in cui la gente affronta o non affronta il fatto che la vita finisce, sulla fragilità dell’equilibrio mentale, sulla vita stessa. (L’anno del pensiero magico, p. 9)
Joan e John hanno condiviso quarant’anni di vita e di lavoro, quasi in simbiosi, e a quel vuoto Didion risponde nell’unico modo che le è possibile: affidandosi alle parole. Prima cercando nei libri, nelle parole degli altri, qualcosa che la aiuti a capire, a ricostruire ogni singolo istante che l’ha portata fino a quella sera in cui John si è accasciato sul tavolo della sala da pranzo, di ritorno entrambi dall’ospedale dove Quintana era ricoverata – uno dei molti difficili ricoveri – per polmonite e shock settico; ogni istante è prezioso in questa sua personale ricostruzione perché ognuno di quegli istanti John era ancora vivo e solo così le sembra possibile, per quanto irrazionale, provare a trattenerlo, aspettare il suo ritorno perfino. È il “pensiero magico” di Didion, irrazionale, si diceva, ma così familiare a chiunque abbia perso una persona amata, che deve esistere un modo per riportarli indietro, per farli tornare. Tutto, per evitare quell’istante che cambia ogni cosa per sempre, quel momento appunto in cui «ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita».
Ho detto che Blue nights è narrazione della tragica scomparsa della figlia Quintana, ma questo è impreciso: come L’anno del pensiero magico non può essere “ridotto” a racconto della disperazione per la perdita del marito, Blue nights contiene gli abissi del dolore per la morte di Quintana ma ne contiene anche la vita, la sua e quella di Joan e John, la scrittura, le riflessioni su un mondo perduto, sulla fragilità e la vecchiaia.
Non avrebbe mai dovuto succedere a lei, ricordo di aver pensato – indignata, come se lei e io avessimo ricevuto la promessa di un’esenzione speciale. (Blue nights, p. 21)
Un pensiero così semplice, infantile quasi, ma che ci è estremamente famigliare. Ci sono voluti cinque anni perché Didion scrivesse della scomparsa di Quintana, ma di lei in fondo ha scritto sempre, come di John. Blue nights è quindi prima di tutto la narrazione di quel dolore, ma anche una lunga riflessione sulla maternità, sulle paure e le incertezze di chi sceglie di adottare un bambino, che Didion svela limpidamente sulla pagina.
E se non sono in grado di prendermi cura di questa bambina? E se questa bambina non cresce bene, e se questa bambina non riesce ad amarmi? E peggio ancora, molto peggio, tanto da essere impensabile, salvo che io ci ho pensato, chiunque abbia mai aspettato di portarsi a casa un bambino lo pensa: e se non riesco ad amare questo bambino? (p. 62)
Si mette a nudo, ancora una volta, e nel farlo mette come sempre a nudo noi stessi, le nostre paure profonde, le mancanze, le verità che non ci diciamo. E accetta il limite, l’umana imperfezione dell’essere genitore, di chi cerca di fare del suo meglio sapendo già che non potrà essere esente da rischi e da cadute, che non capirà mai davvero il mistero rappresentato da quella persona che è suo figlio, come per il figlio resterà sempre una parte inaccessibile dei propri genitori. È il racconto di una mancanza, quindi, di umana imperfezione e del senso di colpa di un genitore che sopravvive al proprio figlio e non se ne da pace. E di come scrivere, ancora una volta, sia la sola cosa possibile.
Quando ho iniziato a scrivere queste pagine credevo che il loro argomento fossero i figli, quelli che abbiamo e quelli che avremmo voluto avere, di come dipendiamo dal fatto che i nostri figli dipendano da noi, di come li incoraggiamo a restare bambini, di come per noi rimangano più inconoscibili di quanto non lo siano per delle amicizie occasionali: di come noi restiamo altrettanto opachi per loro. (p. 57)
Blue nights è il libro scritto da una donna che ha vissuto molto, amato e perso, e che si trova a fare i conti con nuove paure: con la propria fragilità, con la vecchiaia. Conosciamo molto di Didion, attraverso i suoi stessi libri e articoli o nei documentari che le sono stati dedicati e, non so voi, ma pur osservandone nelle immagini il volto segnato dal tempo e il corpo sempre più esile, non mi sembra così lontana da quell’immagine di lei appoggiata al cofano dell’auto, giovane e bellissima, perché dentro i suoi libri Didion non è mai invecchiata, le parole sono ancora un grido fortissimo. Ma forse è proprio questo il punto, invecchiare con tutto ciò che comporta è l’ultimo tabù:
L’invecchiamento e la sua evidenza rimangono gli eventi più prevedibili della vita, tuttavia rimangono anche argomenti che preferiamo non nominare, non esplorare […]. (p. 143)
Curiosamente, mentre leggevo queste pagine stavo seguendo la sit-com Grace and Frankie, con Jane Fonda e Lily Tomlin e in quella narrazione non edulcorata della vecchiaia, della decadenza del corpo, ho trovato qualche punto di contatto. La chiave e il mezzo d’espressione sono diversi, la narrazione stessa lo è, ma tanto nel testo di Didion quanto nella serie tv colpisce la necessità di raccontare quella parte della vita che quasi sempre resta fuori dalla narrazione, in certi termini almeno. E Didion, ancora una volta, mette sé stessa, le proprie paure e fragilità: c’è questa scena in cui la scrittrice è seduta in platea mentre assiste a uno spettacolo e di colpo avverte tutta la fragilità del suo corpo, il panico che l’assale al pensiero che forse non sarà in grado di alzarsi, che ciò che un tempo erano gesti assolutamente normali e meccanici ora non sono più tali. Il corpo invecchia e tradisce.
Nonostante l’età e la figura esile che da sempre la caratterizza facciamo fatica a immaginare Didion come una donna fragile, impaurita.
Perché la sua voce, quella mai, sarà fragile.