Capolavoro d’amore
di Ruggero Cappuccio
Feltrinelli, 2021
pp. 222
€ 17,50 (cartaceo)
L’anno del Signore 2001 è l’anno in cui Manfredi Lanza muore. O meglio: è l’anno in cui muore la parte migliore di lui, quella trentacinquenne e innamorata della vita, dell’arte, di una città (Palermo) e di una donna (Flavia). Perché all’improvviso, senza l’onore di una spiegazione degna di questo nome, tutto ciò di cui credeva di conoscere il volto gli mostra la nuca: quasi a tradimento, senza uno sguardo o una battuta d’addio da ricordare, e soprattutto senza un vero perché. E anche il capoluogo e l’intera Sicilia, d’un tratto e come per un contagio di ostilità, non sono più né casa né patria. Molto meglio, allora, trasferirsi nella Capitale, avviare lì una bottega di antiquariato facendo tesoro dei preziosi insegnamenti ricevuti dal caro maestro Filippo Steri, e provare, con il conforto della professione, a dimenticare il dolore arrecato dalla perdita irreversibile di così tanta bellezza.
Ma è difficile rinascere se il passato, come sempre succede in mancanza di pace, parla e scrive tramite fantasmi mai del tutto esorcizzati. E quando, otto anni dopo, Manfredi riceve una lettera dall’anziano e adorato zio Rolando – una lettera strana, al crocevia tra annunciazione e convocazione – sente che non può fare altro che rimettersi in viaggio e raggiungerlo lì, in quel ventre “isterico”, irrisolto e tormentato quanto lui. È una chiamata a cui del resto non può non rispondere: ormai orfano di entrambi i genitori, con una sorella ancora più lontana perché presa dalla sua carriera scientifica negli Stati Uniti, l’ex pianista in pensione è il suo unico riferimento familiare.
Il nipote non sa che il racconto che lo zio ha in serbo per lui sarà molto di più di una confessione di riepilogo tipicamente senile; non sospetta che quell’uomo ancora piacente e affascinante abbia vissuto esperienze così peculiari come quelle che avrà modo di ascoltare nel corso di lunghe chiacchierate notturne; e più di tutto non immagina affatto che in quelle vicende – sentimentali e artistiche – abbia avuto un ruolo importante una comprimaria d’eccezione, ovvero la famigerata Natività di Caravaggio, l’opera trafugata per mano mafiosa dall’Oratorio di San Lorenzo nell'ottobre di quarant’anni prima e mai più ritrovata (e sì che proprio lo zio, nel 1961, ha addirittura pubblicato un libro sull’artista che ancora viene adottato dall’Università di Siena…). L’unico fatto certo è che in quella manciata di settimane tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno (Diciannove settembre all’alba e Il sette novembre sono gli estremi temporali indicati dal primo e dall’ultimo dei ventitré capitoli di questo Capolavoro d'amore di Ruggero Cappuccio) la vita di Manfredi cambierà ancora una volta in modo radicale; forse, finalmente, in meglio.
Con una prosa controllata e spesso volutamente barocca – che, come eccellente tradizione insegna, non fa che adeguarsi al barocchismo della realtà (e in questa storia non mancano certo i colpi di scena) – lo scrittore, drammaturgo e regista napoletano racconta il nostos di un personaggio smarrito e disilluso, impegnato nella difficile liberazione della propria natura più autentica: un antiquario colto e raffinato a cui pare di contemplare le proprie e le altrui macerie senza mai riuscire a risolversi sul valore effettivo dei danni. A tratti disorientato in una città che conosce a memoria ma in cui perde di continuo la cognizione del tempo e dello spazio; sul punto di arrendersi al caos frastornante che vi fa convivere il sublime e l’abietto, la purezza e la corruzione, il verosimile con l’assurdo; impressionato dalla bizzarria quasi onirica degli incontri che gli capita di compiervi (tra cui una donna fatale dall’identità misteriosa e una bambina di strada ancora più sfuggente), Manfredi affronta la novità di quei giorni e quelle notti siciliane sentendosi circondato da assenze: assenze di nomi e cognomi, di spiegazioni e giustificazioni, di verità e giustizia, di congruenze e combaciamenti. E se anche qualche piaga, dopo profonda e autolesionistica esplorazione, sembrerà finalmente trovare la via della guarigione, forse non sarà mai possibile liberarsi del tutto né dai ladri né dai fantasmi; forse la filosofia della rapina e la dimensione degli spettri – ovvero rispettivamente la meno onesta e la meno acquietata per definizione – sono le uniche concesse agli esseri umani, le uniche conosciute e conoscibili:
«Che maledizione è questa? Forse sto veramente diventando pazzo. Qui tutto scompare […] Ci deve essere il virus della latitanza in questa terra. Da un momento all’altro le persone più care si eclissano, come se non fossero mai esistite, scompaiono per loro scelta o per costrizione […] In fondo, se ci penso bene, anche io sono sparito, e forse con una perversione in più: volevo nascondermi a me stesso. La Sicilia e l’Italia vivono sull’arte del furto: alcuni affinano la destrezza di rubare, altri affinano la rassegnazione di essere derubati, altri ancora derubano se stessi. Si rubano i quadri, le macchine, i gioielli, la buona fede, l’onestà, l’innocenza» (p. 74).
Per quanto il dipinto caravaggesco e le vicende legate al suo furto siano parte integrante della narrazione, quello di Ruggero Cappuccio non è dunque un libro su Michelangelo Merisi e sull’eredità di misteri che a lui fa capo tutt’ora; non si tratta, insomma, di un ennesimo e magari furbesco tentativo di romanzare i fatti accaduti in vita o post mortem a uno dei pittori più geniali e maledetti della storia o a una delle sue opere. Come in un controcanto parallelo e speculare, la Natività di San Lorenzo e la sua scomparsa – di cui l’autore racconta la vicenda anche con la citazione esplicita e letterale delle cronache dell’epoca – sono piuttosto ciò che consente di esemplificare la condizione esistenziale di un personaggio irrisolto, chiamato a fare i conti con il senso della perdita e della perdizione di sé; quasi a ricordare che la vita, quando toglie o si toglie nei modi peggiori, lo fa per restituire e restituirsi in meglio, tramite strategie apparentemente assurde e invece capaci di trasformare quelle che sembrano le rovine più disperate in capolavori perfetti, nitidi, illuminati da fasci di luce nuova che ne squarciano il buio più nero. Proprio come in un quadro del Seicento, la maestria e la meraviglia stanno tutte lì, nella zona di transizione delle ombre, dove tutto ciò che è vago e confuso a poco a poco si chiarisce e d’improvviso viene fatto uscire dal suo nascondiglio: uno stacco netto che è come una venuta al mondo, accolta ora da un “Gloria” angelico, ora da un accordo di pianoforte, ora da un canto – o da un silenzio – di grilli.
Cecilia Mariani