di Albert Camus
Bompiani, ottobre 2021
“Sapevano, adesso, che c’è una cosa che si può desiderare e talvolta ottenere ed è l’affetto umano. Per tutti coloro che invece si erano rivolti al di sopra dell’uomo a qualcosa che non riuscivano neppure a immaginare, una risposta non c’era stata” (pp. 334).
Se
è vero che alcuni avvenimenti della storia umana si ripetono ciclicamente
secondo gli stessi schemi, basta leggere La peste di Albert Camus in tempi di
Covid-19 per avvertire lo straniamento che ci trasmettono quei libri di epoche
passate in cui, per atmosfera o contenuti, percepiamo il richiamo alle nostre
condizioni attuali. Addentrarsi nel capolavoro di Camus non significa solo compiere
un viaggio nella miseria che un'epidemia porta con sé, ma anche ripercorrere
le fasi attraversate dalla mente umana per affrontarla:
dal rifiuto all’angoscia, dal terrore alla rassegnazione, La peste descrive
tutti gli stati d'animo che si insinuano negli uomini in circostanze disperate. Non
c’era bisogno del Covid per riconoscere questo, ma come ammette Alessandro
Piperno nell’introduzione alla nuova edizione Bompiani, leggere La peste oggi
significa vedere messe nero su bianco molte delle emozioni e reazioni sperimentate
da ognuno di noi nell’ultimo anno. Compresa l’illusione, tipica delle prime
fasi dell’epidemia, di essere liberi: è irreale, ci dicevamo; continuavamo a
programmare la nostra vita nella convinzione che fosse un brutto sogno che sarebbe
passato, “e invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto
sogno, sono gli uomini a passare” (pp. 64).
A
Orano, una comunissima cittadina francese, la vita si svolge in modo ordinato e
sereno. Le persone si dedicano al lavoro con diligenza e investono il poco
tempo libero in piaceri semplici, ricercando il conforto delle abitudini a scapito
di qualsiasi intuizione, curiosità o scintilla vitale. L’assenza di grandi
sconvolgimenti nella vita quotidiana rende difficile credere ai primi segnali
della malattia che, dopo qualche resistenza iniziale, i medici riconoscono
essere la peste. Il narratore, di cui si conoscerà l’identità solo alla fine,
inizia a raccontare la reazione dei cittadini osservando il comportamento di
diversi personaggi. C’è Rieux, medico che per mantenere la lucidità necessaria
a fronteggiare l’epidemia impara a ragionare con freddezza e a sopprimere
qualsiasi slancio emotivo:
“Se Rieux fosse stato più riposato, quell’odore di morte diffuso ovunque avrebbe potuto renderlo sentimentale. Ma quando si è dormito solo quattro ore, non si è sentimentali. Si vedono le cose per quello che sono, si vedono cioè dal punto di vista della giustizia, dell’orrenda e derisoria giustizia” (p. 223).
C’è Rambert, giornalista straniero che si è trovato bloccato a Orano dopo che sono state improvvisamente chiuse le porte della città, e sogna di tornare nel proprio paese. C’è Grand, impiegato comunale piuttosto insignificante e goffo, che si mette a disposizione per aiutare con la totale umiltà di chi non aspira all’eroismo. C’è padre Paneloux, che nelle sue prediche invita i cittadini ad accettare la decisione di Dio di mandare la peste e si fa carico di uno degli spunti di riflessione più controversi del romanzo: se per il cristiano esista o meno una differenza tra un male necessario e un male inutile. E poi Cottard, per il quale la peste costituisce una paradossale occasione di riscatto, perché prova da sempre la sensazione che la sua libertà sia sul punto di essere distrutta e adesso, per una volta, vede negli occhi degli altri un terrore a lui familiare, e questo gli dà conforto.
I
personaggi sono diversi e ognuno si muove nel proprio universo di angoscia, nel
quale c’è sempre spazio per un po’ di coraggio. Un coraggio che non ha nulla a
che vedere con un sopravvalutato concetto di eroismo, che Camus ha in
antipatia: combattere la peste rischiando la propria vita non ha niente di
eroico, è solo l’unica cosa ragionevole da fare e presuppone una buona volontà
che gli uomini possiedono più di quanto comunemente si creda. Dare troppa
importanza alle belle azioni suggerisce che queste abbiano un valore aggiunto
perché sono rare, mentre invece gli uomini sono più buoni che cattivi, al
massimo sono più o meno ignari e fanno del bene senza sapere perché. Ma sono
uomini, niente di più, uomini che lottano contro la peste perché è necessario.
E per i semplici cittadini di Orano, che hanno sempre vissuto in una quieta
indifferenza, uno sconvolgimento così eclatante è anche l’occasione per fare i
conti con cosa significa essere uomini e sentire la vita scorrere dentro di sé.
Sentire in maniera forte e dolorosamente fisica la speranza, la sofferenza, la
volontà e la paura, e patirne, perché a volte è troppo per chi ha sempre fatto
il suo senza fare del male a nessuno:
“Rieux sapeva cosa pensava in quel preciso istante il vecchio che piangeva, e lo pensava come lui, che quel mondo senza amore era come un mondo morto e che arriva sempre il momento in cui non se ne può più delle prigioni, del lavoro e del coraggio e si implora un volto umano e il cuore incantato dalla tenerezza.” (p. 294)
Il
piccolo spazio di una recensione non può di certo rendere giustizia agli
innumerevoli spunti di riflessione offerti da questa grande opera letteraria. Camus
tratta una moltitudine di temi che, per ampiezza e complessità, meriterebbero
un’analisi a parte. Straordinarie, per esempio, le pagine in cui affronta la
questione della separazione forzata da chi amiamo, per analizzarne l’effetto
sui nostri sentimenti e concludere (e qui molti di noi potrebbero sentirsi
chiamati in causa) che “nessuno è davvero capace di pensare a nessuno, poiché
pensare davvero a qualcuno significa pensarci ogni istante, senza essere
distratti da niente” (p. 274). E invece la vita è difficile perché i nostri
sentimenti sono più fragili di quanto crediamo, e ci sono sempre delle
distrazioni pronte a spegnere la fiamma di un amore che sembrava invincibile ma
che poi, alla prova della separazione, non resiste.
Ma
alla fine di tutto, penso che ci sia una grande considerazione finale verso la
quale convergono i diversi filoni narrativi: le epidemie sono qualcosa che
accade senza la pretesa di insegnare niente a nessuno. La distruzione che
portano, le famiglie che lacerano, non servono assolutamente a nulla, se non a
ricordarci che la natura risponde a leggi del tutto indifferenti alla felicità
umana. E proprio per questo dobbiamo tenerci stretta la nostra piccola e
insignificante felicità: perché è l’unica cosa che abbiamo e che possiamo
controllare. Per Camus, ateo convinto, è meglio restarsene con i piedi per
terra, guardare agli uomini più che ai santi, alla felicità più che all’eroismo.
Forse non capiremo mai la vita, e allora l’unica risposta per noi potrà essere
quella sussurrata dal conforto degli affetti che, se pure non salvano le vite
umane, perlomeno le addolciscono con il calore della solidarietà.
Alessia
Martoni
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