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A cosa serve un'epidemia? La riflessione sull'inutilità del dolore umano in "La peste" di Albert Camus

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La peste
di Albert Camus
Bompiani, ottobre 2021

Traduzione di Yasmina Mélaouah

pp. 352
€14,00 (cartaceo)
€9,99 (ebook)

“Sapevano, adesso, che c’è una cosa che si può desiderare e talvolta ottenere ed è l’affetto umano. Per tutti coloro che invece si erano rivolti al di sopra dell’uomo a qualcosa che non riuscivano neppure a immaginare, una risposta non c’era stata” (pp. 334).

Se è vero che alcuni avvenimenti della storia umana si ripetono ciclicamente secondo gli stessi schemi, basta leggere La peste di Albert Camus in tempi di Covid-19 per avvertire lo straniamento che ci trasmettono quei libri di epoche passate in cui, per atmosfera o contenuti, percepiamo il richiamo alle nostre condizioni attuali. Addentrarsi nel capolavoro di Camus non significa solo compiere un viaggio nella miseria che un'epidemia porta con sé, ma anche ripercorrere le fasi attraversate dalla mente umana per affrontarla: dal rifiuto all’angoscia, dal terrore alla rassegnazione, La peste descrive tutti gli stati d'animo che si insinuano negli uomini in circostanze disperate. Non c’era bisogno del Covid per riconoscere questo, ma come ammette Alessandro Piperno nell’introduzione alla nuova edizione Bompiani, leggere La peste oggi significa vedere messe nero su bianco molte delle emozioni e reazioni sperimentate da ognuno di noi nell’ultimo anno. Compresa l’illusione, tipica delle prime fasi dell’epidemia, di essere liberi: è irreale, ci dicevamo; continuavamo a programmare la nostra vita nella convinzione che fosse un brutto sogno che sarebbe passato, “e invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare” (pp. 64). 

A Orano, una comunissima cittadina francese, la vita si svolge in modo ordinato e sereno. Le persone si dedicano al lavoro con diligenza e investono il poco tempo libero in piaceri semplici, ricercando il conforto delle abitudini a scapito di qualsiasi intuizione, curiosità o scintilla vitale. L’assenza di grandi sconvolgimenti nella vita quotidiana rende difficile credere ai primi segnali della malattia che, dopo qualche resistenza iniziale, i medici riconoscono essere la peste. Il narratore, di cui si conoscerà l’identità solo alla fine, inizia a raccontare la reazione dei cittadini osservando il comportamento di diversi personaggi. C’è Rieux, medico che per mantenere la lucidità necessaria a fronteggiare l’epidemia impara a ragionare con freddezza e a sopprimere qualsiasi slancio emotivo: 

“Se Rieux fosse stato più riposato, quell’odore di morte diffuso ovunque avrebbe potuto renderlo sentimentale. Ma quando si è dormito solo quattro ore, non si è sentimentali. Si vedono le cose per quello che sono, si vedono cioè dal punto di vista della giustizia, dell’orrenda e derisoria giustizia” (p. 223).

C’è Rambert, giornalista straniero che si è trovato bloccato a Orano dopo che sono state improvvisamente chiuse le porte della città, e sogna di tornare nel proprio paese. C’è Grand, impiegato comunale piuttosto insignificante e goffo, che si mette a disposizione per aiutare con la  totale umiltà di chi non aspira all’eroismo. C’è padre Paneloux, che nelle sue prediche invita i cittadini ad accettare la decisione di Dio di mandare la peste e si fa carico di uno degli spunti di riflessione più controversi del romanzo: se per il cristiano esista o meno una differenza tra un male necessario e un male inutile. E poi Cottard, per il quale la peste costituisce una paradossale occasione di riscatto, perché prova da sempre la sensazione che la sua libertà sia sul punto di essere distrutta e adesso, per una volta, vede negli occhi degli altri un terrore a lui familiare, e questo gli dà conforto.

I personaggi sono diversi e ognuno si muove nel proprio universo di angoscia, nel quale c’è sempre spazio per un po’ di coraggio. Un coraggio che non ha nulla a che vedere con un sopravvalutato concetto di eroismo, che Camus ha in antipatia: combattere la peste rischiando la propria vita non ha niente di eroico, è solo l’unica cosa ragionevole da fare e presuppone una buona volontà che gli uomini possiedono più di quanto comunemente si creda. Dare troppa importanza alle belle azioni suggerisce che queste abbiano un valore aggiunto perché sono rare, mentre invece gli uomini sono più buoni che cattivi, al massimo sono più o meno ignari e fanno del bene senza sapere perché. Ma sono uomini, niente di più, uomini che lottano contro la peste perché è necessario. E per i semplici cittadini di Orano, che hanno sempre vissuto in una quieta indifferenza, uno sconvolgimento così eclatante è anche l’occasione per fare i conti con cosa significa essere uomini e sentire la vita scorrere dentro di sé. Sentire in maniera forte e dolorosamente fisica la speranza, la sofferenza, la volontà e la paura, e patirne, perché a volte è troppo per chi ha sempre fatto il suo senza fare del male a nessuno:

“Rieux sapeva cosa pensava in quel preciso istante il vecchio che piangeva, e lo pensava come lui, che quel mondo senza amore era come un mondo morto e che arriva sempre il momento in cui non se ne può più delle prigioni, del lavoro e del coraggio e si implora un volto umano e il cuore incantato dalla tenerezza.” (p. 294)

Il piccolo spazio di una recensione non può di certo rendere giustizia agli innumerevoli spunti di riflessione offerti da questa grande opera letteraria. Camus tratta una moltitudine di temi che, per ampiezza e complessità, meriterebbero un’analisi a parte. Straordinarie, per esempio, le pagine in cui affronta la questione della separazione forzata da chi amiamo, per analizzarne l’effetto sui nostri sentimenti e concludere (e qui molti di noi potrebbero sentirsi chiamati in causa) che “nessuno è davvero capace di pensare a nessuno, poiché pensare davvero a qualcuno significa pensarci ogni istante, senza essere distratti da niente” (p. 274). E invece la vita è difficile perché i nostri sentimenti sono più fragili di quanto crediamo, e ci sono sempre delle distrazioni pronte a spegnere la fiamma di un amore che sembrava invincibile ma che poi, alla prova della separazione, non resiste.

Ma alla fine di tutto, penso che ci sia una grande considerazione finale verso la quale convergono i diversi filoni narrativi: le epidemie sono qualcosa che accade senza la pretesa di insegnare niente a nessuno. La distruzione che portano, le famiglie che lacerano, non servono assolutamente a nulla, se non a ricordarci che la natura risponde a leggi del tutto indifferenti alla felicità umana. E proprio per questo dobbiamo tenerci stretta la nostra piccola e insignificante felicità: perché è l’unica cosa che abbiamo e che possiamo controllare. Per Camus, ateo convinto, è meglio restarsene con i piedi per terra, guardare agli uomini più che ai santi, alla felicità più che all’eroismo. Forse non capiremo mai la vita, e allora l’unica risposta per noi potrà essere quella sussurrata dal conforto degli affetti che, se pure non salvano le vite umane, perlomeno le addolciscono con il calore della solidarietà.

Alessia Martoni