Sopra i fiumi che vanno
di António Lobo Antunes
Feltrinelli, ottobre 2021
Traduzione di Vittoria Martinetto
pp. 224
€ 18 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
«Allegro, si può avere un cancro ed essere allegri» (p.18)
Si dice, nell’accezione comune, che un attimo prima di morire si ripercorra con la mente un flash back di tutta la propria vita. Sarà questa la chiave di lettura di Sopra i fiumi che vanno (Feltrinelli), libro di António Lobo Antunes, uno dei più importanti scrittori portoghesi del nostro tempo? Di sicuro siamo certi che la malattia descritta nel romanzo da un letto d’ospedale di Lisbona, tra marzo e aprile del 2007, è la sua malattia. Una malattia che si chiama cancro e che l’autore ha avuto modo di conoscere da vicino, sulla propria carne. Antunes lo chiama riccio: un riccio che gli si è nascosto nelle viscere. Una goccia sulla scarpa a evocare il Mondego - fiume che scorre nella regione di Coimbra e che ha raccolto i suoi natali – gli scivola addosso nel ricordo.
Il piano sequenza che Antunes adopera nella tessitura della storia, nell’intreccio delle memorie fatte di immagini repentine, cariche di significati reconditi, è quasi cinematografico, dando vita a situazioni immaginifiche che scaturiscono dalla “madeleine” proustiana. E la prosa diventa poesia, si arricchisce di una scenografia del mondo e del panorama che lo porta a “essere” in sintonia con i territori della sua infanzia e della sua maturità: «Non sei più di qui, di queste pietre, di questi alberi che ci divorano in una fretta crudele così come le erbacce e i calcinacci ci divorano, siamo conchiglie che nessuna eco abita, gusci di lumache ridotti in polvere se li sfioriamo» (p. 32). Attraverso un complesso gioco di specchi in cui Antunes crea un’autofiction che gli permette allo stesso tempo di identificarsi e di allontanarsi dalla voce narrante dell’anziano uomo internato in ospedale, l’autore/voce ripercorre la sua vita, liquida e torrenziale, quasi fosse una pellicola di un film proiettata su un muro scalcinato: rievoca la sua gioventù, in un viaggio che non si comprende se sia inferno o paradiso. Un passato dalle immagini dantesche, in cui le polveri e i vapori delle miniere di wolframio-tungsteno si mischiano ai sogni puri di un ragazzo che desidera una vita in un mondo migliore.
Di questo passato cancerogeno rimane solo il ricordo dell’hotel degli inglesi venuti per predare il minerale e del padre che lì si reca per giocare a tennis, e di quella straniera bionda che ricorre durante tutta la narrazione come immagine di una improbabile Beatrice che accompagna Dante verso la redenzione (o, in questo caso, perdizione?). La narrazione di Antunes è un caleidoscopio di immagini che non possono considerarsi la trama di una vicenda dove i protagonisti raccontano una storia. Sono i protagonisti stessi ed essere la loro propria storia. Le sequenze di queste “figure” sono surreali, paiono tessere di un mosaico che raffigura la panoramica di un’intera vita che, forse, sta per finire.
L’allenamento a morire sconfina nel delirio e la sua percezione del passato diventa una concezione del tempo senza tempo. «Datemi il mio dolore» (p.101) giunge a chiedere la voce narrante quando la sedazione dei farmaci non gli consente di continuare la sua follia di riesumazione di ricordi passati. Sono le descrizioni delle figure che diventano il cardine dell’emozione che Antunes rivive. La voce dell’internato sa che la sua condizione è al limite, che in ogni momento potrebbe accadere l’estrema sorte. Continua nel suo immaginario in un gioco in cui hanno parte la moglie, l’amante e tutte le persone che gli sono state vicino in un turbinio di accessi naturali fatti di panorami d’alberi, di flessuose montagne e dallo scrosciare delle acque del Mondego, fiume sul quale la voce vorrebbe scorrere per sparire nel suo divenire.
Qual è la chiave di lettura del romanzo di António Lobo Antunes? Di che cosa ci sta parlando oltre che della malattia e della morte? Parla dell’anima (probabilmente, la sua). Come James Hillman ipotizza in L’ultima immagine (Rizzoli 2021), l’anima non è altro che la costruzione di immagini che diventano tessere di un mosaico. Antunes e la fittizia voce narrante cercano la loro anima durante una pre-partita con la morte; e quest’anima è fatta di immagini profonde che scaturiscono da tutto ciò che resta di una vita vissuta: emozioni, cose, oggetti, persone che si alternano a ritmo del rombare continuo del Mondego, poesia e immagini che hanno fatto di quella vita un grande, policromo e affascinante mosaico.
Nicola Biasio
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