Come molti abitanti di Harlem, Carney era cresciuto con i vetri rotti al parco giochi, la sfilata di crudeltà sul marciapiede ogni volta che uscivi di casa, e gli schiocchi degli spari. Riconobbe il suono. Si accovacciò e zigzagò verso i bidoni della spazzatura [...] A volte New York era così, giravi l'angolo e ti ritrovavi in una città completamente diversa, come per magia. 140th Street era buia e silenziosa, e Hamilton Place era una festa. Due porte più in là c'era un bar con la fila davanti - uno di quei locali bebop, a giudicare dal suono - e accanto al bar alcuni ispanici bevevano vino e giocavano a domino alla luce di un negozio di barbiere. (p. 115)
Colson Whitehead si reinventa, ancora.
Così il New York Times intitola un editoriale dedicato al grande scrittore due volte premio Pulitzer (prima con La ferrovia sotterranea, poi con I ragazzi della Nickel).
Si reinventa in alcune modalità di espressione letteraria perché dopo i due premiati romanzi di fortissima potenza emotiva che hanno indagato a fondo fasi ed episodi cruciali della storia del razzismo in America, il neo pubblicato Il ritmo di Harlem ha un procedere jazzistico che intrattiene il lettore portandolo nel cuore di uno dei quartieri simbolo di New York, la città a cui l'autore aveva già dedicato un monumento letterario con Il colosso di New York.
L'Harlem qui raccontata è quella degli anni Cinquanta e Sessanta, con le sue afose strade estive piene di botteghe e bar, i colpi dei malviventi, i giocatori di domino ai lati delle vie, gli spari che risuonano come moniti di giorno e di notte. E poi la musica che fa ballare e accompagna i più grandi e i più miseri aspetti della vita del singolo.
A un tratto un evento particolarmente drammatico irrompe in questo tran tran: il cugino prende parte a una rapina al celebre Hotel Theresa, allora centro della vita afroamericana ad Harlem, e Carney viene coinvolto in qualcosa più grande di lui.
Ecco che mentre la trama prende un'accelerazione nuova, il lettore scopre anche cosa si cela nel passato del protagonista, figlio del noto criminale locale Mike Carney. Riaffiorano ricordi, paure, sentimenti di un uomo che inizia a muoversi - suo malgrado - su quel pericoloso crinale tra onestà e malvivenza allargando lo sguardo dal suo quartiere all'intera New York e ai suoi traffici più nascosti e oscuri. Carney adesso non è più soltanto Carney, il commerciante della 125th Street. Qualcosa dal suo passato è tornato a riprenderlo e fino alla fine non sapremo se lo lascerà andare veramente. Nel tracciare le nuove traiettorie esistenziali di questo personaggio, Whitehead delinea i ritratti di altri uomini che le incrociano come Miami Joe, Chink Montague e Pepper. Ne mostra il volto criminale, più epico e granitico, e quello debole e spaventato: "Erano dei duri, ma appena si levava una brezzolina avevano paura che il loro piccolo fiammifero si spegnesse", scrive a un certo punto.
La facciata di una gangster story non deve ingannare chi legge: lo scrittore non rinuncia neanche qui a un'analisi sotto traccia delle dinamiche sociali e politiche dell'America di allora, fondendole con la costruzione emotiva del protagonista Carney:
Nel corso degli anni, Carney aveva raccontato alcuni aneddoti sulla sua infanzia [...] Venire morso dai ratti e spidocchiato dall'infermiera della scuola, gli inverni senza riscaldamento, la volta in cui si era svegliato all'Harlem Hospital con la polmonite senza sapere come ci era arrivato. Raccontava queste storie senza imbarazzo; perché doveva vergognarsi di essersi arrangiato da solo per così tanto tempo? Era stato difficile. Ad altri era andata peggio. (p. 83)
La vita da nero di Harlem sembra ricordare continuamente a Carney che non si devono mostrare parti troppo molli e vulnerabili di sé, perché c'è il rischio che qualcuno vi conficchi un pezzo d'acciaio.
Trovo che le parti più convincenti del romanzo siano quelle in cui Colson Whitehead allarga lo sguardo sulle strutture sociali di allora, descrivendo una città dentro la città di New York, delimitata da un forte che divide i bianchi perbene e la "pazza folla" a cui non è permesso di fuggire per il mondo.
Dietro questi quadri c'è una discussione sull'ineluttabilità del destino razziale e sulla vera natura del potere: avrebbe potuto Carney costruire una vita diversa? E a che prezzo avrebbe potuto conquistare altri diritti? Questa è la dinamica emotiva più forte del libro: i momenti nei quali il venditore di mobili si domanda se sia possibile cambiare il proprio posto nel mondo come quando si trasloca in un palazzo più bello.
Mentirei se dicessi che il protagonista de Il ritmo di Harlem mi è rimasto dentro come la schiava Cora che vive sulla propria pelle la via crucis della segregazione, o il giovane Elwood rinchiuso nel riformatorio degli orrori. Con Carney è diverso perché abita una storia differente che lascia più spazio alla danza criminale fuori da lui per poi fare delle incursioni in picchiata nella sua interiorità.
Il romanzo piacerà molto a chi cerca un ritmo energico - come un'improvvisazione jazz - e l'azione nel suo sviluppo.
Ma di Carney mi resterà soprattutto una cosa, il suo sentimento più forte: la rivalsa. Più sottile ed enigmatica della vendetta perché intimamente potenziale, lo accompagna e lo definisce in questo suo viaggio pieno di crocevia e di scelte che si rincorrono. Come gli angoli delle strade di Harlem.
Claudia Consoli