di Rosa Maria Di Natale
Ianeri Edizioni, maggio 2021
pp.152
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Una Sicilia né ideale né idealizzata è la cornice di questo esordio letterario, sebbene non manchino le grandi passioni e le vicende famigliari a condizionare, come un’onta, la vita dei protagonisti, come nella storia della letteratura isolana, spesso, siamo abituati a leggere. Ma questo romanzo non è un racconto corale, non è un bestiario per esempi di vite e passioni morbose, al contrario è una lunga riflessione e anche una confessione, che beneficia della lucidità del tempo, della distanza dai fatti e intreccia le colpe del passato al silenzio del presente.
Un silenzio colpevole e connivente, che diventa, suo malgrado, una spessa coltre di omertà che inghiotte tutto, perché se una cosa si smette di pensarla com’è, allora diventa altro, e può essere dimenticata, in una logica tutta isolana di non chiamare le cose con il loro nome, perché esse non siano, non diventino, né in atto né in potenza.
Nei miei ricordi mia madre sparecchiava sempre. E non è un caso se i ricordi pendono da una parte sola. La memoria talvolta è crudele. È come una torcia che ci aiuta a muoverci nel buio del nostro passato, ed è anche ombra che distorce la prospettiva e obbliga a guardare in una sola direzione, senza osare oltre. Invece delle torce e delle ombre avremmo bisogno di tanta luce, per ricomporre ogni pezzo. (p. 103)
Rosa Maria di Natale è una cronista di lungo corso, che decide di cimentarsi col romanzo, e non può non farlo colorando in qualche modo la finzione con i toni della cronaca vera, ma è anche una studiosa di filosofia e di fenomeni sociali, e questo suo bagaglio si incastra perfettamente nella vicenda e ne delimita i confini, restituendoci quasi un sillogismo romanzato, in una terra che al ragionamento preferisce l’azione e annichilisce ogni possibilità di gesto. In questo senso i suoi personaggi sono come vinti, annientati dalla consuetudine di dover dimostrare, di essere all’altezza, di scacciare il diverso, l’altro. Se i deboli sono relegati ai margini, se la virilità non può essere metro di giudizio, allora questi mondi fuori dal consueto, dall’accettato, si incontreranno, generando il dramma.
C’è, nei protagonisti, l’idea di una fuga per raggiungere quella Catania e la sua Playa, foriera di una vita diversa, più libera; ma anche la paura di uno sconfinamento, di un’aspirazione ad essere qualcuno fuori dai limiti di una famiglia molto conosciuta, come quella dei Giunta, che impedirà al padre di lasciare al suo destino il figlio Saverio, per poi condannarlo ad un destino di morte.
Questo limite immaginario e fisico, imposto dalla società degli uomini, sarà continuamente infranto dal ragazzo, che una volta conosciuto Matteo, scapperà con lui molte volte, senza che il padre lo sappia. Ma in un mondo di onore e di virilità tossica, quello che questi due giovani fanno, anche solo sfatando i tabù e le voci, non può passare inosservato e deve essere punito. Fino alla recita madre, messa in piedi per mascherare un altro omicidio e che vedrà i due ragazzi vittima di una punizione per aver testimoniato su ciò che non avrebbero dovuto vedere (o forse per ciò che non avrebbero dovuto essere). La realtà è più atroce e conduce ad uno smascheramento delle colpe di un’intera comunità, che costringe i suoi figli a morire, pur di restare dentro le convenzioni. Sarà il peso di quel silenzio e la memoria del fratello Peppino, a restituire dignità e verità alle vittime e al loro dramma.
Giramonte è un paese immaginario ma che ricorda moltissimo un piccolo centro della provincia etnea, così come la storia, che a tratti, soprattutto in una certa geografia di riti e di usanze, strizza l’occhio alle novelle verghiane e a tratti, in particolare nel gusto di intrecciare dialetto e lingua alta, senza mai scadere nel triviale, ci fa rivivere atmosfere care a Camilleri.
Mio padre ne aveva dedotto due insegnamenti. Il primo: troppi eredi mettono in pericolo la roba e il padrone originario finisce per essere maledetto anche dopo morto.
Il secondo: le femmine non ne capiscono una minchia di arance e di affari. (p. 24)
La Sicilia in fondo è una ma anche centomila, e i modi per raccontare una storia sono innumerevoli, quelli per ricordare un’ingiustizia passano solo attraverso le parole giuste, e la Di Natale le conosce e le usa molto bene. Il romanzo è infatti liberamente ispirato al “delitto di Giarre” del 1980, che portò alla fondazione del primo nucleo di militanti gay e l’anno successivo, a Palermo, alla prima Festa nazionale dell’orgoglio omosessuale.
Tuttavia il movente passionale resta nascosto, inglobato dal contesto, in una sorta di disegno à rebours della realtà, per cui se nella realtà, la cronaca di troppi omicidi, nel contesto isolano, veniva liquidata attribuendo ai fatti di mafia presunte questioni private e passionali, nella finzione letteraria la scrittrice ribalta il piano del reale, rimescola le carte del vissuto, ci propone una prospettiva di colpevolezza nell’unico personaggio capace di addossarsi la colpa di una comunità, il Peppino Giunta che confessa un delitto non commesso ma è schiacciato dal peso di un marchio, di un segreto, suo malgrado e di una gelosia bambina che alimenta mostri adulti, e li fa agire al suo posto.
Subivo gli scatti di mio padre, le ansie di mia madre, i sospiri nascosti di Saverio e intanto mi sentivo tagliato fuori da quel gioco crudele. Saverio il grande. Peppino il piccolo. Era questo che stava accadendo e mi pesava. (p. 62)
Perché il cerchio si chiuda occorre che egli si assuma il peso di quesi silenzi e di quelle colpe, ancora una volta un ribaltamento, in una terra in cui spesso i giusti si sentono colpevoli e i vigliacchi si ergono a vincitori e moralizzatori.
Samantha Viva