Koldewey guardava fuori dalla finestra del suo studio, non se ne stava in piedi da nessuna parte, non cartografava alcunché. Era sdraiato sull'ottomana ricavata nel danzale interno, e osservava il fiume che scorreva accanto alle rovine fumava la pipa di allora, senza pensare a qualcos'altro, qualcosa di ordine superiore: la nave, il viaggio, il fine ultimo, i mattoni a rilievo di Nabuccodonosor, i mattoni a rilievo della porta di Ishtar, del paalazzo, della via delle Processioni, nelle diverse centinaia di casse che erano impilate nel cortile della casa di scavo e che da Babilonia dovevano essere trasportate lungo l'Eufrate e per tre continenti fino ad Amburgo, poi lungo l'Elba, la Havel e la Sprea fino alla banchina dei Musei di Berlino sul Kupfergraben. (p. 13)
Questi scavi e i reperti derivanti da essi non fanno gola solo alla Germania. L'antica Mesopotamia e il lavoro di Koldewey si trovano al centro di una fitta trama geopolitica, che vede coinvolti anche gli interessi di altre nazioni europee, di arabi ed ottomani. Siamo, inoltre, alla vigilia del primo conflitto mondiale, anni in cui le nazioni europee "mostravano i muscoli" al di là del Mediterraneo, nelle colonie africane e mediorientali e nei quali la volontà di potenza dei sovrani passava anche per le scoperte archeologiche e perfino per l'interpretazione di tavolette cuneiformi. Nell'area attorno all'antica Babilonia, del resto, prima dei tedeschi avevano già scavato gli inglesi ed i francesi; questi ultimi si erano poi spostati in Persia, arricchendo i loro musei dei fregi del palazzo di Dario (oggi visibili al Louvre). Analogamente, gli inglesi riuscirono a inviare al British Musum la tavoletta che raffigura la caccia al leone di Assurbanipal. È una caccia contro il tempo, quella dei popoli europei, per accaparrarsi frammenti del passato e Koldewey con incrollabile tenacia, ha le idee molto chiare sul da farsi:
A Berlino i singoli pezzi dovevano essere immersi nell'acqua fino a sei settimane per eliminare l'elevato contenuto di sale, dopodiché sarebbero stati asciugati e protetti con uno strato di paraffina perché non si sbriciolassero a contatto con l'aria acida della capitale, una volta ricomposti e risorti come porta di Ishtar, facciata della sala del trono e via delle Processioni all'interno del museo. Dunque sarebbero state ricomposte con i cocci di mattone sparsi per tutta Babilonia e al limite recuperati dagli abitanti dei villaggi in prossimità dell'Eufrate, che ne facevano un nuovo uso per una casa, una stalla, o un canale oppure li vendevano a Baghdad, sebbene gli abitanti dei villaggi preferissero commettere precisamente quello che nell'ottica europea era un crimine contro la cultura e staccassero mattoni interi da muri ancora in piedi. C'erano culture che facevano un nuovo uso del proprio passato, e c'erano culture che il proprio passato lo esibivano. (p. 75).
Vi è il tema della musealizzazione del passato e dell'atteggiamento assai differenti che cultura europea ed extraeuropea hanno riservato alla conservazione dei loro siti archeologici. D'altro canto, la Cusanit mostra come la corsa alle vestigia della mezzaluna fertile fra le potenze aveva ben poco - se non per gli archeologi coinvolti - della curiosità intellettuale disinteressata. Come spesso è accaduto nella storia, gli imperi cercano improbabili filiazioni e fondazioni in un lontano e misterioso passato. È quanto fa un altro personaggio del libro, il filologo Delitzsch, che teorizza inverosimili affinità tra il tedesco e la lingua babilonese.
La storia, diceva Benedetto Croce, è sempre storia contemporanea e leggendo il libro della Cusanit ci verrebbe da dire che lo è anche l'archeologia, o meglio, la volontà politica di servirsi dell'archeologia. Resta puro e quasi refrattario agli intrighi del presente, Koldewey si interroga però, nelle pagine finali, su quale sia il pungolo della sua anima in pena su cosa lo spinga a partire, a misurare a cercare paradigmi per interpretare
il dato registrato, che non avrebbe avuto un colore, un suono, un odore se non fosse stato registrato dai sensi, che non poteva disporre di una bellezza autonoma. La cui bellezza dipendeva dalla componente umana, era solo una proiezione dello spirito umano. (p. 241).
Queste e altre interessanti riflessioni, scritte in una lingua densa, descrittiva e lenta, costituiscono la fisionomia di un romanzo-non romanzo, nel senso che non bisogna cercare in Babele le avventure roboanti all'Indiana Jones ma - ahimè - nemmeno un tentativo di creare una storia che catturi anche i lettori poco avvezzi alle tavolette d'argilla e tematiche assiriologiche. Sono del resto del tutto assenti sequenze dialogiche. Il risultato, a mio avviso, è un divertissement colto che pone il libro in un interessante confine fra il reportage documentario e la fiction, ma che stenta a giustificare, solo per fare un esempio, una lista di 202 nomi dei lavoranti degli scavi.
Deborah Donato
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