La felicità del lupo
di Paolo Cognetti
Einaudi, ottobre 2021
pp. 152
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
A questo punto della mia vita mi sono trovata in maniera del tutto inaspettata ad amare la montagna. Qualche segnale forse c’era già, essendo Paolo Cognetti il mio Nord in termini di letture – e in un certo senso anche di scrittura –, e lui alla montagna dedica pagine meravigliose. Poi, la scorsa estate, ho lasciato per un po’ salsedine e sabbia e sono salita in montagna: ho camminato e camminato, circondata da una bellezza che di colpo mi è parso incredibile aver ignorato per tanto tempo, ne ho assorbito odori, sapori, scorci e ho guardato ogni cosa come se davvero fosse la prima volta che la vedevo.
Da allora sogno di tornarci presto. E forse ha ragione Cognetti già qui, che i luoghi felici ci sembrano sempre altri da quelli in cui ci troviamo di solito, costantemente tesi fra casa e altrove, come se poi la felicità si legasse a un posto e non a noi che lo abitiamo, alle persone che amiamo. Portiamo dentro l’irrequietezza del lupo, che ci spinge a peregrinare verso qualcos’altro, sempre, che sia per un giorno, una vacanza, un pezzo di vita, un altro crinale ancora da scoprire. Mica come l’albero, che cresce dove è caduto il seme e la sua felicità la trova esattamente lì. Io sono meno inquieta del lupo, negli anni poi penso di aver trovato la mia dimensione e l’irrequietezza, il bisogno di novità, trova espressione nella necessità di progetti diversi con cui mettersi alla prova, scoperte e nuovi sguardi. Parlo di tutto questo perché La felicità del lupo, appena arrivato in libreria per Einaudi, è un romanzo che racchiude nello spazio misurato di poco più di un centinaio di pagine una profondità e una miriade di spunti che riguardano proprio me e te lettore di questo libro, facendo esattamente quello che ogni buona storia dovrebbe fare: porgere domande, altro che dare risposte, che quelle casomai è nostro compito trovarle o farsene una ragione se mancano.
La felicità del lupo parla soprattutto attraverso gli spazi vuoti e la “storia sommersa” e non è un caso che ci si riferisca proprio a elementi tipici del racconto pur trattandosi questo di un romanzo: in primo luogo perché Paolo Cognetti è un raccontista, lo è proprio nello sguardo, in un modo tale da rendere racconto ogni cosa, sempre, e la sua scrittura è fatta proprio di questo, intrisa di brevità, cura artigiana della parola, inquadrature ravvicinate, un certo grado di indefinitezza. E se il premio Strega è arrivato nel 2018 con un romanzo – Le otto montagne – per quel che mi riguarda Cognetti ha l’anima dell’autore di racconti. Qui dentro, in questa storia di montagna, rifugi, ghiacciai e irrequietezza, ambientata nell’immaginario paese di Fontana Fredda – ma le alpi valdostane quelle si che sono assolutamente reali e riconoscibili – , riesce a instaurare nuovamente un rapporto intimo e assoluto con il lettore, che trova la propria chiave di lettura.
Una storia composta da tante altre storie, in cui al centro c’è Fausto, il protagonista, che in montagna è arrivato in cerca di rifugio, per provare a capire magari che fare della propria vita all’indomani del divorzio, un conto in banca scarso e qualche velleità letteraria che non l’ha portato da nessuna parte. Fontana Fredda, i sentieri e il suo ghiacciaio, sono i luoghi di quando era bambino e poi ragazzo, il posto a cui tornare per fare ordine nei pensieri e che richiamano memorie.
[…] come poteva sciogliersi a quel ritmo e restare sempre uguale? Allora credeva che il ghiacciaio fosse eterno e immutabile, una parte della montagna che avrebbe sempre ritrovato lì tra la roccia e il cielo. Suo padre invece aveva capito cosa stava succedendo: qualcosa scompare e qualcos’altro prenderà il suo posto, gli disse. Così va il mondo, sai? Siamo noi che abbiamo sempre nostalgia di quello che c’era prima. (p. 87)
Qui a Fontana Fredda intreccia la sua storia a quella di altri che la montagna l’hanno scelta, magari inaspettatamente, come Babette la proprietaria della locanda del paese arrivata dodici anni prima dalla città, o Silvia la giovane cameriera stagionale che ancora non sa se in montagna metterà radici o tornerà indietro. E poi c’è Santorso, il montanaro silenzioso, che beve troppo e osserva attento ogni cosa, ogni traccia intorno a lui. E, ancora, l’anziana vicina di casa, temprata dalla vita, le guide alpine che arrivano da luoghi lontanissimi, gli uomini e donne di passaggio le cui vite per un attimo incrociano le loro, fra felicità e drammi, conquiste e cadute. Il lupo, ovviamente, presenza celata ma costante per tutta la storia:
[…] era un lupo solitario che vagava da una valle all’altra, tenendosi nei boschi e attraversando le strade solo quando necessario, e solo di notte. […] Fiutando l’aria ritrovò, di quei luoghi, una memoria lontana, un ricordo ricevuto in eredità. (p. 52)
A ogni storia ci interessiamo, anche la più piccola e marginale, la scrittura di Cognetti si conferma magistrale nel raccontare le relazioni umane, le increspature, che non si risolvono in epifanie e spesso anzi rimangono sospese in quegli spazi bianchi della narrazione. È dentro di noi che soprattutto si svolge la storia, nelle domande che porta in superficie, nelle anse che ci porta a esplorare, nei significati di cui investiamo parole come cura, rifugio, luoghi della felicità.
Insieme al libro, da Einaudi mi era arrivato anche un piccolo taccuino sulla cui copertina c’è scritto “Dove la vita ricomincia”: e sì, questo è un romanzo dove il termine ricominciare ha il suo centro, che è diverso e più profondo da quello che mi aspettavo a inizio lettura. Quello più immediato e riconoscibile di una nuova direzione da prendere, ma anche la necessità di tornare indietro prima di andare avanti e magari restare, che quasi sempre è più difficile di andarsene. È un rifugio, anche in questo caso nelle tante accezioni del termine: in primo luogo un universo letterario in cui mi sono trovata perfettamente, dove scrittura e storia sono imprescindibili l’una dall’altra come sempre dovrebbe essere; rifugio come luogo dove cercare riparo o, perché no, il luogo dove inseguire quella libertà e quegli spazi sconfinati di un romanzo nato proprio durante il confinamento; rifugio come solo certe persone nella vita di ognuno riescono a esserlo e allora quella parola si intreccia a “cura”, un’altra chiave di lettura possibile di questa storia che contiene mondi.
Chiuse gli occhi e si sentì proprio come una volta. Ma adesso era meglio di una volta, perché c’erano i suoi ricordi di mezzo. È così che dev’essere un rifugio, pensò. Vale di più se custodisce qualcosa di tuo. (p. 90)
Concludo tornando all’altrove, ai luoghi della felicità, che rappresenta il cuore nevralgico di questo romanzo magnifico, ma lascio la parola a Paolo o meglio, alla sua Babette, che assai meglio di me sanno arrivare esattamente al centro:
Prima di avvicinarmi allo zen, per me le montagne erano solo montagne e i fiumi erano solo fiumi. Quando ho cominciato a praticare, le montagne non erano più montagne e i fiumi non erano più fiumi. Ma quando ho raggiunto la chiarezza, le montagne sono tornate montagne e i fiumi sono tornati fiumi. Credo che tu e io questa storiella la possiamo capire bene, perché quel posto è pieno dei significati che gli abbiamo dato noi. (p. 98)