Per chi, come noi, è amante della letteratura, del libro, della carta stampata, andare al Salone Internazionale del libro di Torino è sempre una grande emozione.
Tornare a quel Salone in presenza dopo due anni – con il 2020 alle spalle, dopo il lockdown, con tutto ciò che la pandemia ha significato e continua a significare – è stato, e credo di poter parlare per molti se non per tutti, un’occasione unica. A dimostrarlo ci sono i numeri: 150.000 ingressi, un incremento registrabile fra il 50 e il 150% degli accrediti, una percentuale attestabile intorno all’84% dell’occupazione alberghiera nel fine settimana (fonte: il Libraio).
E dunque, sabato 16 ottobre ci ritroviamo fuori dal Lingotto, ultimi di una coda interminabile. La temperatura gelida del primo mattino e l’obbligo di mascherine e green pass non ci intimoriscono. Fra le voci concitate possiamo sentire persone – bambini, studenti, adulti – digitare sugli smartphone per prenotare gli incontri. Siamo talmente tanti sul sito del Salone che ben presto il sistema va in crash e prenotare diventa quasi impossibile. Ma non demordiamo: oggi ci sono ospiti d’eccezione, come il cantante dei Negramaro Giuliano Sangiorgi, venuto a presentare il suo ultimo romanzo Il tempo di un lento (Einaudi); Max Pezzali, che parlerà del suo Max 90. La mia storia (Sperling & Kupfer); e Cesare Cremonini, autore di Let them talk (Mondadori). Noi però siamo interessati a quell’evento che si terrà alle 20 in Sala Oro.
Appena entrati, ci dirigiamo all’onnipresente stand di Libraccio. Affollatissimo anche a quest’ora del mattino, come ogni Libraccio che si rispetti, i suoi scaffali traboccano di offerte, libri a metà prezzo e occasioni. Nelle vetrine, conservati con cura, vediamo anche gli introvabili e le occasioni, prime copie autografate o pezzi di modernariato.
Ma non c’è tempo: un rapido giro, sono già le 12 ed è tempo del primo incontro. Ci fiondiamo in Sala Rossa giusto in tempo per sentire l’attore Riccardo Bocci leggere un bellissimo passo da Due Vite (Neri Pozza) di Emanuele Trevi, vincitore del Premio Strega di quest’anno (qui la recensione). Nella sala elegante, mentre il maxischermo ci ricorda di indossare la mascherina, ascoltiamo Nadia Terranova duettare con Trevi. Si parla di Rocco Carbone, di Pia Pera, dei loro caratteri così diversi che in modo così palese si riflettevano nelle loro opere. Si parla di amicizie perdute, di come sia difficile scrivere di qualcuno che si è amato, cercando il perfetto equilibro fra oggettività e affetto perché, dice Trevi, “L'affetto vorrebbe preservare l'immagine di una persona vicina” e difenderla da tutto quello che è accaduto. È l’amicizia il tema portante di questo romanzo-memoir. E su questo Trevi ha le idee chiare: L’amicizia, afferma, è una cosa gratuita e per questo è difficile raccontarla in narrativa: è pura durata, non succede nulla. Anche le rotture sono diverse rispetto a quelle amorose, che invece sono esclusive e difficili da ricomporre. L’amicizia è un costante andare insieme, che raramente subisce i contraccolpi, gli alti e i bassi che tanto sono amati nella letteratura. Se Trevi ha una opinione forte dell’amicizia, Riccardo Bocci ne ha una ancora più forte sulla bella scrittura. Senza mezzi termini arriva la sua rasoiata: “Se una scrittura la posso dire è bella, altrimenti no”. E, ovviamente, la scrittura di Trevi riesce a dirla, cioè a recitarla, alla perfezione.
Dopo una brevissima e meritata pausa pranzo – c’è da dire che, come sempre, i prezzi all’interno della fiera sono elevati – ci dirigiamo fuori dai padiglioni, nel foyer del centro congressi. Alle 14.15 in punto, Giusi Marchetta inizia a parlarci di Neroconfetto (Racconti edizioni), l’esordio letterario di Giulia Sara Miori (ne abbiamo parlato qui). I suoi racconti vengono subito definiti perturbanti, gotici, dark, onirici, tutti aggettivi con i quali non possiamo che concordare. Ogni donna presente nel libro, afferma Miori, vive in una gabbia: “Le gabbie possono essere delle ossessioni, delle persone, degli ambienti”, insomma qualsiasi cosa in grado di irretire una persona e congelarla nel proprio percorso di crescita. E, in un momento di confessione, l’autrice subito aggiunge: “La scrittura mi ha permesso di volare, di uscire dalle gabbie che io stessa nel corso del tempo mi ero creata”. Dopo la scrittura come mezzo per ricordare gli affetti scomparsi, ecco che troviamo la scrittura come terapia, dunque, come strumento di salvezza e catarsi. E che la scrittura sia un campo di battaglia Miori ce lo conferma nel corso della presentazione quando afferma: “Non credo nella letteratura come lieto fine. Mi piace scioccare, mi piace spiazzare”. Il suo scopo è lasciare il lettore con più domande che risposte; fare in modo che, una volta terminato il racconto, si apra lo spazio della riflessione.
Vorremmo immetterci nuovamente nel marasma dei padiglioni e fare qualche visita ad alcuni amici editori ma ancora una volta il tempo stringe. Sono già quasi le 15.45, è già quasi il tempo della presentazione di Libro del sangue (Atlantide; la recensione qui) da parte di Paolo Di Paolo. Un emozionatissimo Matteo Trevisani parla del suo libro, di come è nato, di quanto gli è costato scriverlo, di come il Matteo Trevisani scrittore sia legato a doppio filo al Matteo Trevisani protagonista del romanzo. “L'esistenza di Matteo, voce narrante del libro, è un'esistenza volta a conoscere ciò che non sa, ossia la propria storia familiare". Che cosa sappiamo dei nostri bisnonni, dei nostri trisavoli? C'è il buio, il vuoto. L'azzardo di Libro del sangue è risalire il tempo per cogliere i nomi di chi ci ha preceduto. “Ereditiamo una storia che in larga parte ignoriamo”, afferma. E prosegue: “Tutti noi serviamo gli dei, che possono essere i nostri miti personali” o le nostre storie. L'obiettivo di questo libro e della genealogia studiata da Trevisani è conoscere i propri dei per potersene finalmente liberare, come se la storia ignota della sua famiglia fosse un fardello troppo pesante da portare. Ma come funziona la ricerca genealogica? La domanda di Di Paolo è calzante e solleva un moto di curiosità nei presenti. E subito risponde Trevisani: si parte dal domandare ai membri più vecchi della famiglia, ai nonni o ai bisnonni – queste figure mitiche, da sempre anziani e sfuggenti – per poi rivolgersi alle anagrafi, dove quantomeno si può risalire fino al 1870. Poi, se si vuole andare oltre, si deve andare ai registri parrocchiali, che dal 1530, per ordine papale, devono tenere conto di battezzati e cresimati. Prima c'è solo l'abisso. Insomma, la storia del singolo individuo è proprio la storia di una intera nazione.
Alle 18.15, dopo aver recuperato una copia autografata di Nina sull’argine (minimum fax) di Veronica Galletta, che abbiamo recensito al suo esordio con Italo Svevo, andiamo in Sala Rosa dove già ci attende Michele Vaccari insieme all’autrice. È un bel dialogo serrato fra i due, che sembrano conoscersi da sempre e parlano del romanzo come fosse argomento quotidiano. Ingegnere come lo è Galletta nella vita reale, “Caterina è una porta per personaggi che altrimenti non avrebbero voce”. È un’occasione per raccontare una realtà complessa, come il rapporto fra uomini e donne in luoghi di lavoro difficili come i cantieri, soprattutto quando queste ultime ricoprono posizioni di responsabilità. Nel corso della conversazione, Vaccari si rivolge a Galletta e le dice che, nella scrittura, “Hai due chiavi: l'orecchio e il luogo”. E lei non può che confermare. Lo ammette: scrive a orecchio e parla di luoghi, anche quelli che non vuole più vedere.
Usciamo per prendere un po’ d’aria e fuori si è fatto buio. Le luci del Lingotto splendono su Torino, i volti delle persone sono stanchi ma soddisfatti degli acquisti, delle buste e delle sportine colme di libri pronti a essere letti. Finalmente, dopo la mattinata intensa, abbiamo l’occasione di fare due chiacchiere, di salutare gli amici virtuali conosciuti nelle lunghe discussioni su Facebook, di farsi firmare qualche copia.
E poi, è il momento del gran finale. Sono le 19.50, la fila per la Sala Oro è interminabile. Fortuna che, armati di tanta pazienza, siamo riusciti a prenotare per l’evento più atteso della giornata. È Nicola Lagioia a dirlo, non senza emozione nella voce. Anche lui attendeva l’arrivo di Francesco Guccini (di cui abbiamo recensito il suo Canzoni, edito da Bompiani). Mentre Fabio Zulli legge qualche passaggio da Tre cene (Giunti) e Massimo Bernardini dialoga con il maestro, siamo così emozionati che ci scordiamo di prendere appunti. Ascoltiamo, per la prima volta dal vivo, il rotacismo dell’autore modenese parlare di provincia, di cascine, di ubriacature e balordi degli anni passati. Con l’ironia che lo contraddistingue scherza sull’età che ormai avanza, su come sia difficile tornare in città dopo tanto tempo anche se – e qui c’è una piccola anticipazione – sarà costretto a tornarci per una raccolta di racconti modenesi che sta scrivendo. Siamo lontanissimi, davanti a noi una marea di teste. La sala è così piena che, appena qualcuno si alza, il servizio di accoglienza fa sedere qualcun altro. Ma non importa, perché lui è lì a parlare e questo è tutto ciò che conta.
Sono quasi le 21 quando usciamo. Esausti, distrutti, affamati. È stato un tour de force durato una sola giornata e non osiamo neanche lamentarci perché gli editori sono arrivati mercoledì e se ne sono andati martedì. Li abbiamo visti con le occhiaie, gli sguardi nel vuoto per la stanchezza, incapaci quasi di parlare per tutte le frasi che hanno detto in pochi giorni. Ma questo è il Salone del libro, questo è ciò che abbiamo aspettato per due anni, sperando di non sentire mai la parola del contrordine.
E quindi un caro saluto, Torino. Un abbraccio, Lingotto. Ci vediamo a maggio.
David Valentini
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