Atlante dei luoghi infestati
testi di Giulio D’Antona
illustrazioni di Daria Petrilli
Bompiani, 2021
pp. 160
€ 14,99 (ebook)
Vengono chiamate “anime”, “presenze” o “persistenze”, ma anche “fantasmi”, “spettri” o “spiriti”: le entità che - per chi ci crede ma anche per chi, come Dylan Dog, “non ci crede, ma ci spera” - abitano, appestano e possiedono determinati spazi sono state definite nei modi più vari a seconda delle epoche e delle culture (senza contare il fatto che alcune portano direttamente il nome e il cognome dei defunti di appartenenza). Tuttavia, nel leggere l’Atlante dei luoghi infestati di Giulio D’Antona (testi) e Daria Petrilli (illustrazioni), si capisce presto come la questione onomastica abbia, in fin dei conti, un’importanza relativa. Perché più che stabilire quale sia il temine esatto per definire tali sfuggenti fenomeni, ciò che più conta, in effetti, sembra essere la loro percezione: diretta o indiretta che sia, e dunque sperimentata in prima persona o mediata attraverso un racconto di seconda (per non dire di ennesima) mano. Non di rado, in assenza di testimonianze e di prove, possono essere sufficienti anche i soli vagheggiamenti ipotetici, e altrettante volte, come nel caso dell’autore, tali credenze e suggestioni assumono un valore tale da far evolvere i più comuni timori dell’infanzia in veri e propri pensieri dominanti nell’età adulta, con conseguenti letture appassionate, ricerche autonome ed esplorazioni in solitaria/in coppia/in gruppo di siti di sinistra fama vicini e lontani. Fino alla messa in opera, per l’appunto, di un volume sui cinquanta posti più haunted al mondo come quello appena pubblicato da Bompiani.
Giulio D’Antona ci porta dunque con sé in un autentico tour all’insegna della paura che, per tappe di quantità variabile, procede dall’Europa all’Asia, dall’Africa alle Americhe e dall’Oceania all’Antartide. Proprio così: non c’è pace nemmeno nella terra dei ghiacci perenni, e lo hanno scoperto a loro spese i ricercatori britannici che nei primi anni Duemila hanno trascorso un periodo nella base meteorologica della cosiddetta Wordie House, teatro di un poltergeist in piena regola nel bel mezzo di Winter Island. Nulla di più coerente, a pensarci bene, con ciò che, quanto a temperatura, da sempre si riferisce circa i fenomeni paranormali di ogni latitudine e longitudine – improvvisi spifferi di aria fredda, stanze di punto in bianco gelide, muscoli e ossa stretti in una morsa ipotermica – e niente di più affine a ciò che tutto questo clima(x) inevitabilmente genera: che inquietudine sarebbe, difatti, senza il famigerato brivido che percorre in lungo e in largo il corpo di chi la prova? Ad ogni modo, e proprio per il suo assortimento di continenti, epoche e ambientazioni, l’itinerario tracciato in questo volume è tra i più vari che si potessero stilare, e sebbene l’autore ammetta che si tratta di una rappresentanza minima rispetto alla totalità dei luoghi che sono sede comprovata di eventi paranormali, ce n’è abbastanza per farsi un’idea della pervasività (fino all’ubiquità) dei casi di infestazione. Un’evidenza con cui D’Antona chiede al lettore di familiarizzare fin dall’Introduzione:
«un edificio, sono arrivato a concludere, è sempre infestato: che sia abitato o disabitato, lasciato cadere in rovina, ristrutturato o magari ridotto a un cumulo di macerie poggiate su fondamenta antiche. E infestati sono tutti i luoghi che sono stati abitati, frequentati o visitati da esseri viventi […] Ogni luogo vissuto porta e porterà per sempre le impronte di chi ci è passato, ci ha abitato, se n’è andato, è morto. Segni sulle piastrelle, graffi sui muri, scalfitture nelle travi dei tetti, solchi nel verde. L’infestazione è nei dettagli. E nelle storie di fantasmi spesso sono proprio i dettagli a inquietare di più: un libro che cade, un quadro che non vuole stare dritto, una porta che fatica a rimanere chiusa» (p. 9).
Costruito secondo una struttura comune a moltissimi libri di recente edizione e successo (ovvero: un tema generale, la sua declinazione standard in un tot di occorrenze, una colonna visiva inedita e ad hoc), questo Atlante dei luoghi infestati si distingue tuttavia per l’importanza dell’argomento nella vita dell’autore. Già dall’incipit – «fin da piccolo ho avuto paura dei fantasmi» (p. 7) – D’Antona si rivela al suo lettore privo di quella maschera di imperturbabilità che dovrebbe renderne oggettivo il dettato, e anzi approfitta delle pagine introduttive per confessare la sua totale collusione emotiva con ciò di cui si sta occupando – «quella che è nata come una paura irrazionale», spiega, «si è col tempo radicata e consolidata, arrivando a esercitare su di me un’eccezionale attrattiva» (p. 7): chi legge, pertanto, viene invitato a considerare queste storie come l’esito selettivo di un’ossessione decennale alimentata da «un misto di curiosità e fobia» (p. 7). Per queste ragioni, il volume nel suo complesso va inteso non solo come un florilegio di storie talmente spaventose da causare l’insonnia più patologica, ma anche come l’espediente terapeutico – un espediente più che mai narrativo – per cercare di ridurre il numero delle ore di veglia per notte:
«questo Atlante vuole da una parte provare a disegnare una mappa mondiale dei luoghi infestati più spaventosi e raccontare le leggende che li ammantano, dall’altra vuole tentare di dare ordine alla mia ossessione» (p. 10).
La casistica offerta da D’Antona è, come si è detto, estremamente varia. Il fenomeno dell’infestazione può riguardare edifici in uso o stabili in abbandono, interi complessi o singole stanze: non ci sono vincoli, insomma, purché tempo addietro vi sia capitato qualcosa di tragico e delittuoso. Nessuna differenza tra villette private e castelli, tra alberghi e locali pubblici; per non parlare, poi, di luoghi di sofferenza e di espiazione per antonomasia come ex sanatori, ex manicomi, ex ospedali o ex prigioni. La natura, da parte sua, non fa eccezione, specie nella sua versione più selvaggia e inospitale: e mentre il bosco infestato ha compiuto da tempo immemore il salto interpretativo da luogo fisico a vero e proprio topos letterario, i deserti, i corsi d’acqua, le piantagioni e le foreste subtropicali non sono da meno quanto a densità di occorrenze paranormali. Proprio per collocare al meglio ogni singolo caso sulla superficie delle terre emerse, D’Antona indica sempre, e con la maggiore precisione possibile, stato, regione, città e indirizzo con tanto di numero civico: e se questo offre a chi legge le coordinate esatte di un’eventuale meta di pellegrinaggio (ché in queste faccende i pellegrini sono così numerosi che non si riesce a tenerne il conto esatto), allo stesso tempo serve a rispondere a quell’esigenza di localizzazione che costituisce uno dei presupposti conoscitivi fondamentali del fenomeno dell’infestazione in sé:
«paradossalmente, i luoghi e gli edifici che si ritengono infestati sono la manifestazione fisica di ciò che è impossibile da collocare. A ogni fantasma è necessario “abitare uno spazio” per diventare credibile: abbiamo infatti bisogno di pensarlo entro un luogo ben definito, così da limitare il nostro terrore. Se non esistessero specifici ambienti infestati impazziremmo di paura» (p. 8).
Le illustrazioni di Daria Petrilli, da parte loro, offrono un’interpretazione visiva tutt’altro che “pop” o edulcorata delle vicende narrate. Ciò accade a partire dalle porzioni di planisfero di vaga memoria medievale collocate in apertura di ciascuna sezione: all’interno dei contorni continentali trovano spazio sia i nomi delle singole località infestate prese in esame, sia alcune porzioni debitamente giustapposte delle tavole che l’artista ha realizzato a loro proposito. Uniformate dall’alternanza di pochissimi toni e colori (blu, rosso, marrone, giallo, bianco e nero), e non di rado tendenti al monocromo, le ventuno tavole rendono giustizia al protagonismo dei luoghi e dei rispettivi infestanti con “effetti speciali” ottenuti tramite giochi di luci, bagliori, fluorescenze e viraggi, ma anche sovrapponendo in trasparenza le figure: un modo, questo, che sembra mimare le alterazioni e le plurime impressioni su una pellicola attraversata da graffi e ammaloramenti, ma anche suggerire implicitamente la perfetta fusione dei fantasmi con i rispettivi luoghi di appartenenza. L’effetto finale, sempre molto suggestivo, richiama spesso alla mente soluzioni tipiche della fotografia e del cinema, specialmente per quanto riguarda le marcature espressive date dalle angolazioni dall’alto o dal basso, che nell’esaltare le altezze fanno percepire l’incombenza del cielo e del destino, ma anche l’attrazione del suolo e del vuoto.
Avvincente come una raccolta di racconti, questo Atlante dei luoghi infestati è sorprendentemente privo di una bibliografia o una sitografia finale: una lacuna che non ci si aspetta, in effetti, e non solo perché l’autore ha letto e consultato per anni innumerevoli libri e fonti sull’argomento, ma anche perché si arriva a fine libro con una tale curiosità di saperne di più che il desiderio di approfondire grazie a un consigliere d’esperienza ne resta inevitabilmente un po’ frustrato. Ad ogni modo, poco male. Adatto a ogni età e fruibile in ogni stagione, il lavoro di Giulio D’Antona e Daria Petrilli è, con ogni evidenza, particolarmente indicato per scandire “il mese dei morti”. L’autore è ben consapevole di entrambe le possibilità, ed è per questo che alla fine dell’Introduzione chiama all’appello i fruitori ideali: se per gli animi più prudenti o più pavidi questo volume sarà «una riserva di storie a cui attingere nel silenzio di una stanza in penombra, alimentando quel bisogno primario, quel piacere dell’inquietudine che tutti avvertiamo prima o poi», per i più coraggiosi sarà invece «un libro di consultazione, una guida ricca di spunti utili a organizzare viaggi da brivido» (p. 10). Un manuale, aggiunge, di cui avrebbe avuto bisogno lui durante la crescita per inseguire meglio la sua fissazione, e anche rispondere alla domanda che lo tormenta da sempre e a cui ancora non ha trovato una risposta definitiva: quella, cruciale, sul desiderio stesso della paura.
Cecilia Mariani
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