Mettere al mondo il mondo.
Tutto quanto facciamo per essere detti creativi e chi ce lo fa fare
di Stefano Bartezzaghi
Bompiani, 2021
pp. 302
€ 18,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
Io creo, tu crei, egli crea, noi creiamo, voi create, essi creano: e vissero tutti creativi (creatori?) e contenti. È dal 1950 (con qualche precedente) che facciamo i conti con una parola facile da usare e difficile, o anzi impossibile, da definire: questa parola è “creatività”, termine tanto prestigioso e carismatico quanto vago e sfumato, proprio come ogni mitologia in piena regola prevede e richiede. Perché di che cosa si parla, esattamente, quando si parla di creatività? Come mai le si addicono così tanto successo, importanza, valore, potere? E soprattutto: perché tanta smania di creare a tutti i costi se non, a questo punto, per godere dei surplus che la condizione di “creativo” (inteso come aggettivo e come aggettivo sostantivato) ormai comporta in senso teorico/immateriale e pratico/materiale? Quale destino, allora, per chi creativo non è, non si sente, non è interessato a esserlo e magari trova la sua pace in qualcosa di meccanico e compilativo? O non è forse più vero il contrario, e cioè che creativi siamo tutti “per natura” invece che “per cultura”? Per Stefano Bartezzaghi, che all’Università Iulm insegna proprio Semiotica della creatività, la questione è talmente cruciale da averne fatto l’oggetto di una riflessione di lungo corso e l’argomento di Mettere al mondo il mondo, il suo ultimo libro uscito per Bompiani (casa editrice per cui dirige anche la collana Amletica Leggera) a due anni da Banalità (2019) e a quattro da Parole in gioco (2017).
Basta il sottotitolo, Tutto quanto facciamo per essere detti creativi e chi ce lo fa fare, per intuire come la creatività sia diventata – meglio: sia stata fatta diventare – una sorta di status symbol, la chiave di accesso a un sistema fatato di privilegio, il predellino perfetto per uno scavalcamento di valore e la mossa più calcolatrice per una scalata gerarchica in ambito lavorativo non meno che sociale, economico non meno che culturale: è tutto in questo “quid”, in questo “non so che” che ormai non si nega a nessuno – anche perché “(quasi) nessuno (se) lo vuol negar” – eppure la sua individuazione e la sua formula somigliano a un lambiccamento intellettuale da azzeccagarbugli di manzoniana memoria. E se per questo è molto opportuna l’epigrafe scelta dall’autore tratta da I promessi sposi – si tratta del passo in cui si confrontano la “baggianata” di Renzo e la riflessione del narratore sul significato del termine “poeta” – non meno perfetta, nella sua sintesi con interrogativa finale, è la frase riportata sul retro di copertina: «Sopra, il cielo da cui le Muse ispirano gli artisti. Sotto, il suolo a cui la legge di gravita àncora noi, gente della strada. E in mezzo?». In mezzo, spiega Bartezzaghi, c’è sempre e proprio quella parola: “creatività”. Ed è proprio come tale che la creatività sarà fatta oggetto del volume:
«in questo libro non ci chiederemo chi sia il mandante delle cose che facciamo e neppure cercheremo di capire cosa la creatività “realmente” sia. “Creatività” è un concetto di cui gli esseri umani hanno sentito il bisogno per nominare qualcosa di impreciso, o di spurio, comunque di ineffabile e che però in una data epoca storica è stato loro necessario per pensare sé stessi. Questo libro intende delineare i contorni di tale bisogno o, forse meglio, di tale desiderio» (p. 11).
Articolato in tre parti – Creatività come discorso, Creatività come narrazione, Archeologie della creatività – il lavoro dello studioso cerca dunque di rendere conto di questo fenomeno così complesso in più modi: 1) distinguendone le gradazioni e i mutamenti di significato in base alle branche di applicazione (a decrescere, come in una piramide immaginaria: creatività in ambito artistico, conoscitivo, produttivo, mediale, quotidiano); 2) mettendola in relazione con il concetto di novità, di invenzione e di trasformazione; 3) dimostrandone, non da ultimo, la relativa giovinezza, se è vero che è solo dagli anni Cinquanta del Novecento che essere creativi ha assunto un valore superiore e preferibile all’essere, per così dire, ortodossi. Capitolo dopo capitolo ci si rende progressivamente conto di come all’attuale pervasività del tema corrisponda da una parte un’effettiva difficoltà di definizione univoca (mentre il significato del termine è sempre comprensibile a un livello più intuitivo), dall’altra un senso di necessità, di dipendenza quasi patologica e comunque incurabile che secondo l’autore ha trovato in 8 ½, emblematico film di Federico Fellini del 1963, una sorta di profezia cinematografica sulla crisi della creatività stessa. Nel frattempo, la creatività continua a essere sia il positivo marchio di fabbrica di un’intera nazione (si pensi al “segreto del successo” del Made in Italy) sia la mostrina che chiunque – dal parrucchiere al pasticcere, dal divulgatore scientifico all’amministratore delegato, dall’informatico all’influencer, dal Ministro dell’Economia all’amministratore di condominio – non vede l’ora di farsi appuntare sulla divisa (anzi: già che c’è se l’appunta da sé). Tutti creativi, nessun creativo: tutti a ruotare come girandole in preda alle correnti aeree di una creatività che spira secondo le direzioni di una capricciosissima rosa dei venti.
Chi conosce e segue Bartezzaghi – collaboratore del quotidiano la Repubblica, autore di saggi, di raccolte di giochi linguistici, enigmistici e letterari nonché di un libro che è la prima storia italiana del cruciverba, L’orizzonte verticale (2007) – non vorrà certo perderne quest’ultima pubblicazione il cui titolo omaggia esplicitamente (ed efficacemente) l’omonima opera di Alighiero Boetti. Certo non si tratta di un libro riposante, e anzi il lettore farà bene a munirsi di tutta l’attenzione e la lucidità possibili, come se stesse per partecipare a un corso accelerato di marcata impostazione semiotica su una delle mitologie che, sotto infinite mentite spoglie, ormai ammantano e rivestono la nostra esistenza quotidiana. Sempre piacevole ma sempre rigorosa (e difatti in coda al volume, oltre alla bibliografia, sono state incluse delle apposite note terminologiche per aiutare il lettore a comprendere l’uso di certe espressioni all’interno del libro) l’argomentazione dell’autore finisce con l’insinuarsi nella coscienza di chi legge sottoforma di incalzante questionario: “E tu?” – sembra essere l’inevitabile interrogativo sottinteso – “Anche tu sei o sei considerato creativo? E in che modo lo sei o credi di esserlo? E con quale e quanto plauso? E perché ci tieni così tanto? E soprattutto: chi te lo fa fare?”. Sono domande che vale la pena porsi proprio per passare dalla staticità della teoria al dinamismo della realtà, e magari per concludere di quanto si possa essere banali proprio nella ricerca più ostinata e ostentata di un’altrettanto mitologica originalità.
Cecilia Mariani