di Daniel Woodrell
“La bottiglia in cui avevo rinchiuso le urla per tutta la mia vita esplose. Le urla si liberarono dove nessuno poteva sentirle […] Urlavo per cose che credevo di aver dimenticato. Parti di me che non capivo si sciolsero ostruendomi la gola.” (p. 173)
Con Addio, Sweet Mister Daniel Woodrell chiude la serie di West Table, e lo fa con la maestria che i lettori più affezionati gli riconoscono. Come negli altri libri (qui trovate la recensione di La versione della cameriera), anche in questo caso ritroviamo la struggente dolcezza che illumina dei personaggi di una fragilità quasi epica, disarmante nella sua umanità. A West Table, lo abbiamo imparato, c’è poco spazio per la serenità e l'innocenza, e i protagonisti si muovono nel mondo con addosso il peso di malinconie astratte e difficoltà tristemente concrete. Ne risulta un quadro desolato nel quale, tuttavia, si insinua sempre la particolare luce che emanano le cose semplici ma ricche di dignità.
Ai margini di West Table, il tredicenne Shuggie ha già
consumato la propria infanzia. La sua casa affaccia sul cimitero locale, del
quale si occupa insieme alla madre Glenda, donna dalla spiccata sensualità, ma
incapace di prendere in mano la propria vita. Madre e figlio vivono infatti in
balia di Red, il compagno di Glenda che si atteggia a padre di Shuggie, anche
se tutti e tre sanno che non lo è. Red rende la vita impossibile ai due,
picchiando periodicamente Glenda e coinvolgendo Shuggie nei propri piccoli
crimini: il ragazzino è costretto a entrare nelle case di persone ricche e
malate e a rubar loro i medicinali. Nonostante Glenda sappia che quando Red
porta con sé il figlio da qualche parte non è per fare niente di buono, si
accontenta delle giustificazioni evasive di Shuggie. Nulla conta più della
possibilità di mantenere un equilibrio che, per quanto doloroso, è l’unico al
quale sono abituati da sempre. È per questo, forse, che Shuggie non si rende
conto delle mancanze della madre, al contrario: la idealizza studiandone
amorevolmente i contorni, soffermandosi su dettagli insignificanti dell’aspetto
o del modo di fare che, per lui, sono l’emblema della perfezione. Una
perfezione artefatta, costruita per lo più sulla bellezza di Glenda, che ha
qualcosa di affascinante e distruttivo insieme. Le fondamenta di questo
precario equilibrio vengono scosse dalla comparsa di Jimmy Vin, uomo distinto
che impiega poco a lasciarsi rapire dal potere seduttivo di Glenda, alla quale
la vita, da questo momento, sembra quasi ricominciare a sorridere. La passione
fra i due si accende e presto si nutre della speranza di Glenda di potersi
ribellare a Red e cambiare la propria condizione. Quando Shuggie comincerà a
capire che quella madre, da lui sempre ammirata e difesa, è disposta a metterlo
in secondo piano, libererà tutto il suo dolore. E le conseguenze saranno
inaspettate.
Addio, Sweet Mister ha qualcosa che ricorda una fiaba, ma come se fosse deformata.
Fin da subito restiamo toccati dal legame fra Shuggie e Glenda, vulnerabili ma
uniti nella loro debolezza, i quali si oppongono alla figura del cattivo per
eccellenza, forse anche un po’ esasperata. Ma Woodrell non si limita a questo,
naturalmente. Questa semplice opposizione fra bene e male subisce, nel corso
del libro, una torsione che si intuisce già nelle prime pagine. C’è qualcosa che
rende tossico il rapporto tra madre e figlio, qualcosa di nebuloso che, non a
caso, rimane sullo sfondo perché sfugge alla loro stessa consapevolezza. Per chi pensa
per lo più a sopravvivere non è sempre facile trovare gli strumenti per
comprendere: è il motivo per cui talvolta il rancore inizia ad avvelenare il
cuore ancora prima di affacciarsi alla coscienza. La bravura dell’autore, a mio
avviso, risiede nella capacità di esprimere chiaramente questa condizione
esistenziale. La narrazione è costellata da episodi, descrizioni, dialoghi che lasciano
addosso un turbamento, a volte quasi un fastidio:
“Mi domandavo se Red fosse sepolto da qualche parte e i vermi stessero già mangiando le sue parti morbide – bulbi oculari, labbra, orecchie, lingua. Eserciti di vermi impegnati ad abbuffarsi delle sue parti più tenere, a entrare e uscire dalla sua carne.” (p. 145)
È Shuggie a parlare, e non è il tipo di pensieri che dovrebbe
appartenere a un tredicenne, ma per lui l’infanzia è durata il tempo di un battito di ciglia. Ma quando
un bambino si ritrova suo malgrado testimone di scene che non può capire, quando
una violenza ingiustificata si abbatte su ogni sua giornata, quando si abitua a
un ambiente pregno di sessualità rumorosa e animalesca, di chi è la colpa? Addio,
Sweet Mister ci spinge a domandarcelo, attraverso una riflessione delicata
e al tempo stesso cruda su cosa significa proteggere e amare. La storia di
Shuggie non è diversa da quella di tante persone messe alla prova da una vita
passata a trattenere le proprie urla, fino a lasciarle libere di sfogarsi per la
miseria di un’esistenza in cui si ha sempre e solo rinunciato.
Alessia Martoni