Orientamento di Daniel Orozco traduzione di Emanuele Giammarco Racconti, 2021
pp. 186
€ 16(cartaceo)
€ 5,99 (ebook)
Se hai domande, chiedi al tuo superiore. Se non riesci a trovare il tuo superiore, chiedi a Phillip Spiers. Che siede lì. Controllerà con Clarissa Nicks. Che siede lì. Se non riesci a trovarli, sentiti libero di chiedere a me. Quella è la mia postazione. È lì che siedo io. (p. 15)
Uno dei mantra maggiormente ripetuti nei testi di scrittura, nelle scuole per aspiranti autori, nelle recensioni, è il famosissimo “Less is more”. Che, però, non è un motto nato nell’ambito della letteratura bensì in quello dell’architettura: padre ne è infatti il famoso architetto Ludwig Mies van der Rohe, che puntava sull’essenzialità delle strutture per la costruzione degli edifici. Quando pensiamo al “Less is more” ci vengono in mente nomi come Raymond Carver, Ernest Hemingway, Mary Robinson: autori e autrici che sul non detto, su ciò che non mettevano nero su bianco fra le righe ma lasciavano solo intuire, hanno costruito carriere di spessore. L’idea alla base del “Less is more” è che ciò che viene riportato nel testo debba trovare il proprio significato al di fuori del testo stesso, tenendo in considerazione le conoscenze condivise del lettore e, soprattutto, la costruzione precedente della trama: meno dici su qualcosa, più spazio lasci all'immaginazione del lettore.
Daniel Orozco, autore americano poco conosciuto in Italia, sfrutta in modo diverso il motto di van der Rohe. Prendiamo il primo racconto di Orientamento, la short story omonima che dà l'avvio al il suo primo e unico libro: di fatto è la mera rappresentazione del primo giorno di ufficio del protagonista anonimo. Il referente si rivolge direttamente al lettore, gettandolo così nell’immediatezza della seconda persona, dando per scontato che chiunque stia leggendo quel racconto si sia trovato almeno una volta nella vita a vivere il "primo giorno di lavoro". La storia, senza un’evoluzione apparente della trama, prosegue con la minuziosa descrizione degli ambienti di lavoro, dei colleghi – fra i quali spunta anche un assassino, nei cui confronti bisogna solo far finta di niente e, semmai venisse scoperto, bisognerebbe solo dire che «sembrava una persona perbene», p. 15) – degli spazi comuni come la sala delle fotocopie o la zona comune dalla quale si può godere di una vista di ciò che sta fuori. Mentre la storia prosegue, gettando occhiate chiaroscure sui personaggi fumosi dell’ufficio, il lettore entra in sintonia con l’ambiente. Qualche risata amara scappa ma la sensazione principale è quella di essere stati incastrati: non solo ci si chiede come ci comporteremmo se fossimo al posto del protagonista, sapendo di dover passare mezza giornata in un posto come quello che il nostro collega ci sta descrivendo; ma ci si chiede anche se, effettivamente, non viviamo noi stessi una situazione simile ogni giorno; se i meccanismi perversi che il collega ci sta descrivendo non siano quelli che ci ritroviamo ad affrontare quando entriamo in ufficio alle nove di mattina, cinque giorni a settimana, cinquantadue (circa) settimane l’anno, per chissà quanti anni.
Ecco allora come funziona il “Less is more” di Orozco: è nella mimesi, nel ritrovarsi al centro della scena non come spettatore ma come parte attiva della storia stessa, che il suo genio esce fuori. Le sue storie, che a volte sembrano interrompersi all’improvviso al culmine della tensione (Il ponte, Vado a correre ogni giorno, L’agente è scontento), proprio nel non giungere a un finale esplosivo trovano la giusta conclusione: il lettore, avendo vissuto situazioni simili, avendole immagazzinate perché qui, nel mondo reale, sono proprio intorno a lui, sa bene quali siano le possibili conseguenze di quanto raccontato. Orozco non è interessato a mostrarci la sua prospettiva sul capitalismo, sul mondo del lavoro, sulla società di massa: il suo obiettivo è quello di mostrarci i meccanismi celati che vi sono dietro per poi lasciare al lettore l’interpretazione – assolutamente personale – di quanto narrato.
La nostra realtà è a volte così surreale (pensiamo ai casi di suicidio in Giappone a causa delle condizioni di lavoro impossibili degli impiegati) da non aver bisogno dell’aggiunta di ulteriori elementi. È già un incubo così com’è.
David Valentini
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