"Verso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere la speranza del mondo, accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei suoi libri l’America, un’America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente […] il successo fu tanto che costrinse il regime a tollerare, per salvare la faccia. […] Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l’America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti", Cesare Pavese, Ieri e oggi, in Saggi letterari, Torino, 1968, (pp. 173-174)
Se non era un nuovo inizio della storia, era e resta un esperimento della storia, come ci ricorda il titolo di questa preziosa raccolta di interviste che Rotelli fa a ventitré scrittori americani tra i più interessanti del panorama contemporaneo, da premi Pulitzer ad autori meno noti in Italia. La dedica a una delle intellettuali più devote alla letteratura americana, Fernanda Pivano, grazie alla quale abbiamo imparato ad apprezzare in largo anticipo voci che si sarebbero in seguito rivelate profetiche per la stessa cultura oltreoceano. Con Pivano, che conosce di persona, Rotelli ha la fortuna di visitare New York e di incontrare diversi protagonisti della scena culturale; collaboreranno per cinque anni, fino al 2009, anno della morte di colei che, ora, è per tutti Nanda.
Se la letteratura è una forma di conoscenza, grazie alle opere di questi scrittori ci siamo senz’altro avvicinati nel tempo alla società americana attraverso lo sguardo di chi vive immerso nelle sue contraddizioni. Questa raccolta tesse un racconto corale sulla ricerca dell’identità, le lotte, le ipocrisie e le paure di una comunità, affrontato ora con umorismo ora con amarezza, ma sempre con lucidità.
Oltre a considerazioni più propriamente politiche, in questo scambio leggiamo anche riflessioni sulla letteratura e sulla pratica della scrittura (che molti di loro insegnano), scoprendo i suggestivi retroscena della nascita di alcune loro opere o dei metodi utilizzati da ciascuno per dare forma narrativa alle proprie ossessioni. Ci raccontano, come davanti a un caffè, delle loro letture, dell’influenza che le madri e i padri letterari hanno sul loro lavoro, del loro rapporto con le nuove tecnologie e i social media e, inevitabilmente, di denaro, della crisi finanziaria del 2008, di individualismo e di razzismo, richiamando però i pericoli e le derive di un uso eccessivo del politicamente corretto.
Jay McInerney pensa che “molti grandi romanzi americani siano tuttora storie di invenzione di se stessi, perché il massimo sogno americano è l’idea che tu possa creare la tua identità da zero, senza alcun riferimento alla storia, alla famiglia o a qualsiasi altra cosa…”, (p. 40)
Stefan Merrill Block consiglia ai suoi studenti dei corsi di scrittura creativa di "non scrivere ciò che sanno, ma ciò che sentono vero”, (p. 82)
Si raccolgono pezzi
autobiografici e aneddoti degli scrittori intervistati, come quando Ferlinghetti
ci racconta della nascita della City Lights Bookstore e l’idea di aprire il
primo negozio d’America di soli tascabili venuta al socio Peter Dean Martin,
figlio di Carlo Tresca, anarchico italiano ucciso a New York negli anni
quaranta. O di quando arrivò Urlo
di Allen Ginsberg, tradotto in Italia da Fernanda Pivano, e persino di quando era “un bravo ragazzo americano, un boy scout dei sobborghi di New York. Un americano
convinto e impegnato che nel 1941 si era iscritto in Marina ancor prima dell’attacco
a Pearl Harbor”, (p. 128)
Anche in queste conversazioni ogni discorso sull’America sembra presupporre l’Europa, così come un’irriducibile distanza culturale tra i due poli di New York e California che sembrano riconciliarsi solo nel loro essere le due coste in opposizione all’entroterra.
Una lettura consigliata, dunque, non solo agli appassionati di letteratura americana e a chi tra loro è curioso di scoprire come Richard Powers svolge le ricerche per le sue opere, ma anche a chi non vuole perdere l’occasione di riflettere insieme a scrittori contemporanei su grandi temi di attualità o su temi antichi come l’identità: “Guardo alla preoccupazione, e addirittura ossessione americana per la parola 'io' sempre da una certa distanza,” racconta Yiyun Li, arrivata dalla Cina negli Stati Uniti a ventitré anni. “Sento di avere la libertà di poter creare un po’ di spazio tra me e quel pronome, il che, quando scrivo, mi pare sia un vantaggio, perché più mi sento trasparente più posso entrare nella mente dei personaggi”, (pp. 154-155)
Maria Teresa Rovitto
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