di Gianluca Di Dio
Voland, ottobre 2021
pp. 224
€ 16,00 (cartaceo)
€ 6,49 (ebook)
C'era stata una guerra, appunto, e come sempre nessuno era riuscito a vincerla. La città dove mi trovavo era stata inghiottita come una bustina di zucchero dalla fame escandescente dell'acqua di una diga. Da mesi, da quando le acque si erano ritirate, eravamo rimasti prigionieri nel grembo stracciato e naufrago di quella città (p. 9)
Questo è stato il destino della città di Andrej: una guerra, l'invasione delle acque e un mondo irriconoscibile che accoglie i superstiti senza più occupazione o legami familiari. La speranza o una forma di direzione viene data dall'arrivo di una corriera, bianca e mastodontica, dove dei reclutatori selezionano volontari per partire alla volta di un cantiere, la Sublime Costruzione, dove le luci sempre accese creano un giorno perenne. Andrej e l'amico di una vita, Årvo, si imbarcano in questo viaggio dai contorni sfumati. Durante il loro percorso, faranno incontri che mescolano la brutalità del mondo post apocalittico e l'epica dei nostoi omerici. Con la differenza che più che un ritorno in patria, i sopravvissuti cercano un luogo nel quale ricominciare.
Il lavoro di Gianluca Di Dio – già autore per Voland di Più a est di Radi Kürkk – è ambizioso: La Sublime Costruzione mira a una riscrittura dell'Odissea. L'intento è dichiarato in maniera esplicita visto che i capitoli si aprono con frasi in esergo tratte dal poema omerico in cui si va a richiamare l'avventura che Andrej e i suoi compagni di viaggio andranno ad affrontare. Le sirene ammaliatrici, Circe, i Lotofagi, Polifemo, il regno dei morti, sono approdi simbolici ai quali Andrej fa tappa mentre veleggia o per meglio dire, vista la situazione del mondo, arranca per raggiungere il sogno utopico di questo cantiere, di questa Sublime Costruzione di cui poco si sa se non che si erge come un faro, una torre bianca ai confini di un mondo ormai distrutto.
Lavoro ambizioso perché non solo riprende una delle prime narrazioni della letteratura occidentale ma ne ricerca anche lo stile omerico con espressioni quali "il giorno ormai vecchio" e con le similitudini proprie della prosa epica.
Così come si cava il marmo dalla roccia facendo esplodere una mina, allo stesso modo, i nostri animi si sgretolarono generando blocchi di terrore, a causa di quella scena deflagrante. (p. 100)
Per chi apprezza ed è abituato ad associare il post apocalittico
all'asciuttezza di McCarthy, all'inizio risulta difficile calarsi in questo modello stilistico.
Proprio perché si parla di ambientazione post apocalittica, non si può non vedere nel viaggio che compiono Andrej e compagni il calco di The road con un non ben precisato cataclisma che pone fine al mondo conosciuto e i sopravvissuti che si spingono sulle strade: nel caso del Padre e del Figlio di McCarthy si ricercava carburante, cibo e un luogo più caldo dove svernare, qui si va alla ricerca di un cantiere, di un punto per ricominciare e dare un senso all'errare nato dopo l'invasione delle acque. Nei post apocalittici – e The Road ne è un ottimo esempio – il mondo è brutale, preda dei più ferini istinti di sopravvivenza, come il cannibalismo; nella Sublime Costruzione non manca la brutalità, ma viene elevata e portata all'estremo nei vizi e nelle necessità umane. Abbiamo così il piacere e la gratificazione sessuale ininterrotta nella casa della Maga che va ricercata a furia di continui accoppiamenti e stimolanti per produrre film hard per ottenere il favore e la compiacenza della circe del romanzo. Il bisogno di sopravvivere in un mondo in rovina si traduce nei brutali allenamenti nella casa dei due colossi dove importa solo fare massa e mettere su muscoli con processi crudeli, da beveroni di proteine somministrati a forza, all'umiliate rito della depilazione comune nelle docce.
I dolori trafiggevano ogni fibra muscolare, soprattutto i primi tempi, ma venivano sedati con dosi generose di antiinfiammatori, che i colossi ci somministravano in capsule a due dei sei pasti quotidiani. Alla fine d'ogni giorno, ci assaliva immutabile una sfinitezza innaturale, ma pure un sospetto disperante: che tutto il gonfiore sintetico accumulato nelle membra prendesse corpo, in realtà, da un avvizzimento; che ogni gesto ripetuto cancellasse a poco a poco la restante curiosità del mondo. (p. 114)
Il desiderio di oblio e di un sonno che consuma arriva nella tappa delle pescatrici con il loro canto ammaliante. Si è tentati, almeno all'inizio, di ricercare una concretezza nelle situazioni assurde che capitano ai viaggiatori, a trovare una giustificazione che risponda alle motivazioni del mondo per come lo conosciamo noi, ma questo non è possibile perché i superstiti, con il crollo della diga non hanno perso solo il loro mondo, come in un purificatore diluvio universale: hanno perso anche la memoria.
"Comunque l'amnesia da lucidi è una bella sensazione: ci si sente involontariamente nuovi." (p. 47)
Così dichiara Ossian, uno dei compagni di viaggio conosciuti nella corriera. Pochi sono i ricordi che arrivano ai viaggiatori, sporadici raggi di luce che perforano la cappa costante delle nuvole basse del cielo sopra di loro. Ricordi di un mondo doloroso come nel caso del Dottore che ci offre il resoconto più ampio del disastro e di come lui abbia dovuto scegliere quali pazienti salvare e quali lasciare alla furia delle acque. A volte sono ricordi ricercati come nel caso di Årvo che è sempre stato ferroviere, figlio di ferrovieri, e, ovunque va, cerca tracce del suo passato fino a richiedere alla Maga una locomotiva dove poi si ambienteranno le infinite riprese pornografiche. A volte semplici impressioni che colpiscono Andrej che ricorda l'odore di suo padre oppure nelle musiche nelle quali ravvisa momenti del prima.
Un valzer suonano, leggero e consolante, mi ricorda le vacanze, l'ora del tramonto, qualcosa capace d'inculcarti in testa la convinzione che alla fine, ma sì, è tutto semplice: la felicità è una cosa normale ed è fatta per ciascuno di noi, senza distinzioni. (p. 153)
La Sublime Costruzione potrebbe sembrare quasi questa felicità a cui tendere, un posto dove ci sarà un lavoro, dove tutti avranno un ruolo, qualcosa di tangibile e concreto anche se per Årvo è solo l'ennesimo inganno.
"Io non voglio andare avanti... dopo quanto abbiamo passato non credo sia rimasto qualcosa di grande, di bello... quando siamo partiti ero convinto che ci fosse ancora un posto normale e vero, dove poter vivere come avevamo vissuto..." (p. 135)
Ma Andrej lo sprona, come Odisseo con i suoi compagni ormai stanchi, a raggiungere quel qualcosa che sta solo un po' più in là. Là in fondo, come la montagna che Odisseo racconta a Dante di aver visto dopo tre mesi di navigazione in mare aperto e dalla quale si stacca la tempesta che, dopo aver fatto vorticare la nave per tre volte, la fa affondare su sé stessa.
Un esperimento di riscrittura ambizioso e ben riuscito. Da un'opera come l'Odissea per la quale qualunque riscrittura potrebbe sembrare un azzardo o una forzatura, Gianluca Di Dio crea un nuovo nostos: quello del ritorno al mondo di prima, ai ricordi che l'acqua ha spazzato via perché l'umanità ha sempre diritto a una speranza, a una sublime costruzione alla quale tendere.
Giulia Pretta