l'uso liturgico a richiedere che il proprio linguaggio si mantenga ineccepibile. Esso viene perciò tenuto sotto stretta sorveglianza e analizzato onde evitare che qualche sfumatura di ambiguità possa inficiare la perfetta riuscita del rito. (p. 12).
A sorvegliare che il sanscrito restasse una lingua pura, erano i saggi che ebbero per prima la rivelazione del Ŗgveda e con essi del sacro idioma. Il punto affascinante da cui parte il testo di Ghidetti è che il sanscrito è la lingua in cui parlano gli dèi, non gli uomini, è la lingua della classe dominanti (il ceto dei brahmani) a cui gli altri non hanno accesso. Il suo carattere liturgico l'ha preservata, l'ha fatta mutare molto meno e molto più lentamente rispetto agli altri idiomi.
il sanscrito, anche solo a cercare di definirlo e prima ancora di guardare come è fatto, è il regno dei paradossi. Non è una lingua naturale, ma non è certo artificiale né tanto meno è tenuta in vita artificialmente. Esiste la lingua sanscrita ma non esistono "i sanscriti" né un "popolo sanscrito" (viceversa, gli indiani sono gli abitanti dell'India e parlano molte lingue, ma non esiste la "lingua indiana" o peggio ancora "l'indiano"). (p. 22).
Detto ciò, il testo passa in rassegna le similitudini fra alcune parole in italiano e alcune parole in sanscrito, date le loro origini comuni (il proto-indoeuropeo). Ma sfogliando il vocabolario italiano è sorprendente quante parole derivino dal sanscrito: zucchero, sanndalo, arancia, giungla, solo per dirne alcune. Ghidetti dà anche spazio alle parole che invece abbiamo importato dal sanscrito, tali e quali, e che afferiscono alla cultura indiana (yoga, Buddha, mantra, tantra). È molto interessante scoprire la filologia e il significato originario di termini che oramai affollano anche i nostri giornali e che spesso sono usati in maniera imprecisa.
Una lingua degli dèi, dicevamo, ma anche degli uomini:
Dopo il vedico venne il classico, e gli dèi scesero sulla terra. Il principale frutto poetico della cultura mitologica hindu sono due fantasmagoriche opere epiche, il Mahābhārata e il Rāmāyana (p. 65).
Molto interessante è il carattere divulgativo ma puntuale e ricco di spunti che Le gioie del sanscrito dà non solo sulla cultura indiana ma in generale sulle domande essenziali della linguistica e del suo status di scienza e sul rapporto fra lingue naturali e intelligenze artificiali.
Il pregio del libro di Giovanna Ghidetti è che riesce ad affrontare temi non particolarmente "popolari" o semplici, ma in maniera divertente e accattivante. La lettura è scorrevole e prima di abbandonarci ci seduce con citazioni cinematografiche e un immancabile glossario.
Per i più avventurosi vi è anche una guida alla pronuncia, perché Ghidetti ci dà anche delle dritte per chi volesse seguire un corso di sanscrito, per eliminare il pregiudizio che lo studio di certi idiomi sia «un vezzo per pochi e un capriccio lontano dal mondo».
A questo universo si accede non per interesse ma per amore: per la letteratura sterminata, per la filosofia e la religione affascinanti, oppure per la razionale bellezza della lingua in sé e per i linguaggi in genere. Non ultimo, per l'estro e l'unicità delle persone che s'incontrano su questi passi. E si capisce dopo, molto più tardi e in tutt'altri percorsi, l'impronta che se n'è avuta. (p. 8).
Personalmente, in un mondo dominato dall'impellenza dell'utile e dalla premura di una formazione immediatamente spendibile, mi appare un miracolo che ci si sappia ancora stupire ed emozionare per dei prefissi e dei suffissi e che si sappia leggere, attraverso la lente di una sintassi, il meraviglioso fiorire di una civiltà.
Deborah Donato
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