di Shirley Jackson
Adelphi, ottobre 2021
Traduzione di Silvia Pareschi
pp. 251
€ 19 (cartaceo)
€9,99 (ebook)
Leggere Shirley Jackson è cadere nell’ossessione. Quella della scrittrice, per tematiche e spunti che ricorrono fra romanzi e storie ogni volta rinnovati; la nostra di lettori, che rimaniamo completamente ammaliati da questa cantastorie mentre ci mostra la parte più marcia del cuore umano, le nostre contraddizioni e ambiguità, mai giudicante. Affabulatrice esperta, Shirley Jackson cattura con una prosa sempre perfetta e una tensione narrativa che non viene meno nei romanzi quanto nei racconti, dentro i quali restiamo invischiati e consapevoli che difficilmente troveremo facili soluzioni o perfino una risoluzione piena dei tanti enigmi disseminati sulla pagina. Non sta certo a lei fornirci le risposte, non almeno alle domande che ci aspetteremmo, quanto piuttosto a noi lettori trovare la strada.
Negli ultimi anni l’opera di questa scrittrice straordinaria sembra incantare nuove generazioni di lettori, affascinati tanto dalle atmosfere gotiche quanto dall’ironia feroce e la prosa perfetta su cui si posa la narrazione. Se è vero che molte delle ossessioni di Jackson diventano tematiche e spunti ricorrenti nella sua opera, è altrettanto vero che non possiamo incasellarla troppo rigidamente dentro un genere, il gotico appunto, o una tendenza, perché ogni volta ciò che scopriamo tra le pagine è una storia diversa, che si nutre dei propri demoni e tormenti nel tentativo di tenerli a bada attraverso la scrittura, in quelle poche ore rubate alla vita famigliare. E lì, davanti alla macchina da scrivere, essere finalmente sé stessa.
La meridiana, l’ultima opera appena pubblicata da Adelphi nella traduzione magistrale di Silvia Pareschi – che già si era occupata di Paranoia – , vede la luce nel 1958, un anno prima di L’incubo di Hill House, dove appaiono ben riconoscibili molte delle atmosfere e degli spunti narrativi germinati in questo romanzo che strega il lettore grazie alla costante tensione narrativa con cui è costruito e, appunto, l’ironia pungente dei dialoghi serrati. Un lavoro di traduzione indubbiamente complesso, che si confronta con i numerosi personaggi e voci che compongono una storia come si diceva retta dai dialoghi fulminanti, rimandi e sottotesto, la parola calibrata per creare la narrazione: Pareschi riesce nel difficile lavoro di rendere viva la scrittura che finge un’immediatezza dimentica di tutto il lavoro che vi è dietro, e la sensazione nel lettore è di trovarsi all’interno di quella casa, i dialoghi e l’azione in presa diretta.
Ecco, la casa, forse l’ossessione più riconoscibile di Shirley Jackson: anche ne La meridiana il cuore della storia è la casa, tutt’altro che semplice ambientazione-sfondo ma protagonista quanto i personaggi nel dramma che si compie davanti ai nostri occhi; una grande villa immersa in un parco e circondata da mura, isolata dal piccolo paese in cui si trova, costruita e arredata per far mostra di tutto il potere e la ricchezza della famiglia che la abita, dal passato oscuro.
Benché ciò non avesse probabilmente influenzato il primo Mr Halloran quando scelse il luogo dove costruire la villa, poco prima del suo arrivo il paese era stato oggetto di una sensazionale pubblicità. La giovane Harriet Stuart, secondo l’opinione generale, un mattino si era alzata insolitamente presto nella casa degli Stuart appena fuori dal paese, e con un martello aveva assassinato il padre, la madre e i due fratelli minori, mettendo bruscamente fine all’albero genealogico di famiglia. (p. 84)
È una villa dalla forza ambivalente, che separa nettamente dal mondo esterno e dalle persone, che imprigiona, che attrae e respinge allo stesso tempo, ed è il palcoscenico dove va in scena il dramma quotidiano di una famiglia di svitati, snob e pieni di manie, mossi sempre e solo dal calcolo e dall’avidità. Guidati dalla più cinica e maestosa di tutti loro, la matriarca Mrs Halloran, che detiene ricchezze e potere ed è disposta a tutto per consolidarlo. Anche, forse, a uccidere l’unico figlio ed erede designato:
«La nonna ha ucciso il mio papà […], lo ha spinto giù dalle scale e lo ha ucciso. È stata la nonna. Non è vero?». (p. 10)
È proprio da qui che prende avvio il romanzo, quando la famiglia rientra nella villa dopo il funerale di Lionel e la figlia novenne esprime chiaramente ciò che non è un mistero pensano tutti loro. Un dubbio, uno dei tanti, che resterà tale per tutto il romanzo, perché non è questo che conta, non svelare più di tanto il mistero: ciò che interessa, a Jackson e a noi lettori, è vedere le conseguenze e le meschinità di cui uomini e donne sono capaci, le ipocrisie, l’egoismo, la follia. E poi dopotutto non c’è nemmeno tempo per approfondire davvero la questione sulle cause dell’improvvisa scomparsa dell’erede, perché di lì a poco un evento ben più urgente costringe la famiglia e gli “amici” arrivati in visita a ripensare dinamiche e opportunità: l’imminente fine del mondo. Attraverso l’apparizione del defunto primo Mr Halloran – e con immediata eco shakespeariana – la famiglia è presto informata che in un futuro non meglio precisato ma quanto mai prossimo il mondo è cosa certa finirà e solo la casa e i suoi abitanti si salveranno. Apparizione e consegna del messaggio seguita da opportuno svenimento in soggiorno di fronte alla famiglia riunita, ma qui finiscono le scene di grande pathos: siamo aristocratici dopotutto e nemmeno la notizia della fine dell’intera umanità in un’apocalisse di fuoco potrebbe giustificare infatti la perdita del controllo e il consueto indifferente aplomb con cui ogni evento viene accolto.
«Credi che saremo felici laggiù?».«No.» rispose Mrs Halloran. «Ma d’altronde non siamo felici neanche qui». (p. 174)
Non resta altro da fare che organizzarsi, Mrs Halloran pronta a prendere il comando anche di questa situazione e stabilire una volta per tutte il proprio ruolo dominante nella famiglia, mentre intorno a lei si riuniscono nuovi ospiti inattesi, si consumano illusioni e corteggiamenti, tentativi di fuga e ribellione e, soprattutto, vecchi dissapori e tormenti vengono fuori. Neppure gli alieni potrebbero scalfire la cinica indifferenza di Halloran e compagnia e infatti non lo faranno: i Veri Credenti, uno sparuto gruppo locale che condivide la visione apocalittica si presentano alla villa pronti a svelare la minaccia extraterrestre e prendere il comando, vengono rapidamente messi alla porta e ignorati senza tante cerimonie. Fra preparativi per l’apocalisse, sonnecchianti pomeriggi di reclusione, nuove visioni – e un certo scetticismo di fondo – e bambini tutt’altro che innocenti, ecco come Shirley Jackson riesce ancora una volta a tenerci inchiodati alle pagine, dandoci l’illusione di raccontare un certo tipo di storia per poi scoprire che in realtà stiamo assistendo, partecipando, a qualcosa di altro. E questo altro che ci svela è ben più marcio che in Danimarca. Sono le frustrazioni e le manie di questo gruppo di matti, i desideri oscuri di ognuno di loro, da cui non sono immuni nemmeno i bambini, mai nelle storie di Jackson, e la piccola Francy è forse tra le creature più intriganti di questo tipo, con la sua non celata sete di potere, le rivelazioni dirette, il confinamento, la rabbia sottesa. Fancy che sembra al corrente di ogni cosa, che si aggira furtiva dentro i confini della grande villa e mira alla corona della nonna. Una bambina che alterna giochi con le bambole - e forse anche questi non poi così innocenti - a ciniche riflessioni sulla vita.
Il terrore genialmente suscitato dalla scrittura, i rimandi e gli spunti, i punti di domanda e le ossessioni ricorrenti: la meridiana del giardino frontale della villa e l’incisione che la accompagna “cos’è questo mondo” e il ruolo centrale che assume, è il simbolo ideale per un romanzo che conferma ancora una volta lo straordinario talento di questa scrittrice mistica, che ha saputo trasformare le proprie ossessioni in letteratura, ogni volta le stesse e ogni volta rinnovate. Come capita davvero a pochi.