L'unica storia, la più difficile da raccontare: "Le stelle si spengono all'alba", il romanzo magistrale del più importante autore indigeno canadese



Le stelle si spengono all'alba
di Richard Wagamese
La Nuova Frontiera, ottobre 2021

Traduzione di Nazzareno Mataldi

pp. 256
€ 17,50 (cartaceo)
€ 11,49 (ebook)


Appena terminato di leggere Le stelle si spengono all’alba, di Richard Wagamese, ho fatto una cosa che non faccio mai: ho scritto a caldo una mail all’editore, La Nuova Frontiera, con una sola parola, l’unica che mi sembrava possibile. Bellissimo. Non me ne sono pentita, il primo istinto su questo libro è confermato anche dopo avervi messo la giusta distanza, quando le parole si sono sedimentate e lì resteranno a lungo. E vanno scelte con cura per parlare di questa storia che proprio sulle parole si fonda: quelle negate, che lasciano vuoti abissali, quelle che danno forma alla vita, quelle che aprono squarci. Quelle che, in un certo senso, formano la nostra identità, sono le radici di una storia che pur non conoscendo ci appartiene, sono i fantasmi da cui non sappiamo trovare pace, sono casa, famiglia, vita. «Le parole sono tutto ciò che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste» sosteneva il buon vecchio Ray (Carver), e qui le parole e con loro una storia lunga e dolorosa arrivano quando l’urgenza di raccontare supera la vergogna, il senso di colpa, la distanza di tutta una vita. 
Un padre, Eldon, che padre non è stato mai; un figlio, Franklin, cresciuto da un altro uomo. Quando il padre ormai irrimediabilmente segnato dall’alcolismo chiama il figlio perché lo accompagni nell’ultimo viaggio e gli dia sepoltura da guerriero Ojibwe, Franklin risponde mosso dal desiderio di scoprire qualcosa sulle proprie origini, su quella mancanza nella sua vita, su un uomo tormentato dai fantasmi di tutta un’esistenza. Inizia un viaggio attraverso le foreste canadesi e dentro i propri demoni, per arrivare fino alla terra dove essere sepolto, forse non davvero liberato delle colpe e delle mancanze ma capace almeno di restituire al figlio la sua storia, la loro storia. Come padre e figlio, come membro della comunità indiana.
«Non ti conosco molto» disse il ragazzo.
«Sono tuo padre» […]
«Per me è solo una parola». (p. 25)
Sono moltissimi gli spunti e le riflessioni che scaturiscono dalla lettura di questo romanzo magistrale, ma il centro nevralgico è più di ogni cosa il discorso sulla paternità e le possibili sfumature di un legame che non necessariamente è fatto dal sangue. Eldon è entrato e uscito dalla vita di Franklin innumerevoli volte, un fantasma quasi al pari di quelli che lui stesso si porta dentro, il vuoto dei silenzi e di una storia che solo lui è tenuto a raccontare si fa sempre più profondo; un alcolizzato, segnato da un dolore che il figlio non conosce ancora, ma che non lascia scampo ormai. Eldon, suo padre di sangue.
Ma è il vecchio, l’uomo che l’ha cresciuto, a rappresentare l’unica figura paterna per lui fin da quando ha memoria: è lui che gli ha insegnato come essere un uomo, come essere una brava persona, che lo ha accudito, consolato con i suoi modi asciutti di poche parole e gesti essenziali a superare ogni volta la delusione per le mancanze del padre. Il vecchio, che lo ha istruito alla vita nella fattoria e nella natura e poi gli lascia trovare da sé la propria strada, la propria identità. Non spetta a lui però raccontare una storia che non gli appartiene davvero, può solo farsi da parte e seguire a distanza, accogliere quando sarà il momento. Un padre non di sangue, ma un padre.
Di sangue, scoprirà, è intrisa tutta la storia della propria famiglia:
La sua storia tutta una trama di sangue, lacrime e partenze improvvise come un osso che si spezza. (p. 229)
È, inevitabilmente, una profonda riflessione su identità e appartenenza che inizia nel doloroso passato di Eldon, nel racconto di un’infanzia nomade, la guerra in cui perse il padre e ogni possibile stabilità, il sangue indiano e le tradizioni sconosciute. Un’altra guerra, poi, a distruggere per sempre la sua umanità, la caduta nell’alcolismo, la felicità fugace e la speranza di una vita finalmente libera dai propri fantasmi, fino alla perdita, irrimediabile, di ogni possibilità di salvezza. Eldon è un mondo di storie non raccontate, di ferite di cui porta ben evidenti i segni sulla pelle, di scelte che cambiano per sempre il corso di una vita e con cui talvolta è impossibile convivere. 
Il discorso sull’identità si intreccia anche alla questione dei nativi canadesi, dentro e fuori dal testo: Richard Wagamese (scomparso nel 2017) con questo romanzo magistrale si conferma come uno dei principali scrittori indigeni del Canada, il primo a vincere un premio nazionale di giornalismo e nella storia di Eldon e Franklin imprime l’urgenza di una questione complessa che è stata una costante di tutta la sua carriera letteraria e umana. Una realtà stratificata di cui Le stelle si spengono all’alba osserva soprattutto i risvolti più intimi e personali ma senza dimenticare ciò che nella realtà ha significato fare parte di una comunità confinata, vittima dei pregiudizi e del razzismo, coinvolta in guerre e poi all’occorrenza dimenticata. È una ferita ancora aperta, su cui la letteratura contribuisce a portare l’attenzione, pur riconducendo la questione in questo bellissimo romanzo come si diceva alla sua dimensione intima, personale. Umana, di un’umanità dolente, a cui non resta altro che raccontare non per salvarsi o trovare una pace che sembra ormai impossibile ma per restituire un pezzo mancante a chi ne ha bisogno.

Torna, costante, anche il discorso sulle storie: è questo a mio avviso l’altro grande centro della narrazione, le storie negate e quelle che ci tengono in vita, le storie che la vita sembrano perfino crearla.
Era quello il nocciolo della sua infanzia. Quelli i ricordi che custodiva dentro di sé. La fatica e il duro lavoro e il continuo spostarsi, inseguendo un’occupazione dopo l’altra, dimenticati in quella magia; il riversarsi della parole dalla pagina e la sensazione di intimità in qualunque misero riparo potessero permettersi o che fosse messo a loro disposizione. La sua idea di famiglia racchiusa per sempre nell’abbraccio condiviso di una storia. (p. 94)
È il ricordo più limpido di Eldon, custodito dentro di sé al riparo dall’orrore del mondo. La madre, amatissima, le sue storie che danno forma alla vita, l’idea stessa di famiglia, lei che con la sua voce sembrava tenere «insieme il suo mondo». Sarà un’altra donna, molto tempo dopo e con tutto il dolore che c’è stato in mezzo, a riportare le storie nella sua vita, creando un simile incanto. Eldon è custode di narrazioni e parole, talvolta meravigliose altre piene di sofferenza, che non sa condividere con gli altri anche se farlo forse avrebbe significato salvarsi. È con fatica che ora, nel corso di quell’ultimo viaggio e sempre più debole, le parole trovano la strada per uscire e arrivare a suo figlio, per creare ancora una volta la vita, l’identità, le radici. Eppure, proprio loro, gli Starlight, sono nati per essere cantastorie:
[…] Starlight era il nome dato a quelli che avevano ricevuto gli insegnamenti del Popolo delle Stelle. Molto tempo fa. Secondo la leggenda scendono dalle stelle in notti come questa. Notti serene. Si siedono con la gente e raccontano delle cose. Storie perlopiù, sulla natura delle cose. Ai più saggi veniva insegnato di più. Alla nostra gente. Gli Starlight. Noi eravamo destinati a essere maestri e cantastorie. (p. 166)
Ho pensato molto, durante la lettura, se fosse possibile parlare di perdono in questa storia, se alla fine fosse questo, "semplicemente", il tema ultimo: è così, in parte, ma non del tutto. Eldon e Franklin sono arrivati ormai a un punto, a un'estraneità, in cui il perdono per tutte le mancanze non è davvero possibile, non in modo credibile e questa storia si fonda sulla credibilità. Ma pagina dopo pagina, ciò che ho capito è che si tratta di un altro tipo di perdono, forse ancora più difficile: quello verso sé stessi. E un miglio dopo l'altro anche la distanza tra i due sembra accorciarsi, senza annullarsi mai davvero ma trovando un modo se non per comprendere almeno per conoscere. Ecco allora che laddove le parole non vengono sono i gesti ad avvicinare.

Gli mise una mano su una guancia. Era calda e arrossata, ma meno rovente di quanto sembrasse a prima vista. La tenne lì. (p. 119)

In una narrazione come Le stelle si spengono all’alba, dove la pagina crea vita, dove la parola è scelta con cura e anche i silenzi trovano un significato, l’attenzione messa nella traduzione del testo non può certo passare inosservata e La Nuova Frontiera la affida a Nazzareno Mataldi che compie un lavoro notevole restituendo le variazioni del testo, dosando intensità e immediatezza di un romanzo che resta sempre perfettamente aderente a sé stesso senza cadere in facili lirismi di fronte alle descrizioni della natura selvaggia o al dolore. Mataldi si lascia guidare dal testo e la sensazione che si ha, probabilmente mutuata anche dalle piccole note sul suo vissuto, è di una profonda affinità con l’autore, pur con tutta la distanza geografica e personale. Laddove nel romanzo ci siano momenti di esitazione, debolezze narrative, non tolgono molto alla fine a una voce importante come quella di Wagamese e a un testo che conferma l’eccellenza della collana Le frontiere selvagge, di cui avevo amato profondamente Un piede in paradiso, un classico fondamentale. Storie diverse per ambientazione – il Sud degli Stati Uniti, le foreste del Canada – ma accomunate da ben più di un elemento, primo fra tutti la riflessione su rapporti umani e paternità.

Il romanzo di Wagamese quindi si inserisce perfettamente in un catalogo curato e assolutamente da tenere d’occhio, ma cosa ancor più importante si inserisce nel discorso letterario contemporaneo fornendo nuovi spunti e uno sguardo ulteriore su tematiche tanto universali quanto inesauribili. E ci ricorda quanto le storie siano fondamentali, anche quelle fatte di sangue e lacrime, capaci davvero di dare forma alla vita.