Galatea
di Madeline Miller
Sonzogno Editore, ottobre 2021
Sonzogno Editore, ottobre 2021
Traduzione di Marinella Magrì
Illustrazioni di Ambra Garlaschelli
pp. 80
€ 14,90 (cartaceo)
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Illustrazioni di Ambra Garlaschelli
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Madeline Miller non ha bisogno di presentazioni, perché ormai è un’autrice di bestseller conosciuta in tutto il mondo. Diffido sempre degli autori e delle autrici di bestseller, di cui tutti parlano ininterrottamente, spesso come se fossero gli ultimi rimasti a riuscire a scrivere delle storie che valgano la pena di essere lette. Diffido, a volte giustamente. Altre volte sono invece costretta ad ammettere che effettivamente un motivo, dietro tutta l’attenzione di cui vengono ricoperti, esiste. Il caso di Miller rientra tra questi. L’onda del successo che ha travolto La canzone di Achille (Sonzogno 2013, Marsilio 2019) e Circe (Marsilio, 2021), sarà la stessa che travolgerà anche Galatea, nuovo racconto illustrato pubblicato pochi giorni fa per Sonzogno. In realtà mi trovo un po’ in difficoltà a fare rientrare questa storia in una categoria, perché sfugge a una cornice vera e propria. È una storia, ma assomiglia a una leggenda tramandata oralmente di generazione in generazione; è una poesia, di cui però non abbiamo né versi né rime baciate: una metrica assente, eppure sempre poesia. O almeno questa è stata la mia impressione iniziale, che non mi ha più abbandonato.
L’autrice parte dal mito classico di Pigmalione e lo rivisita in chiave moderna, per restituirci un mito in dialogo col tempo, perché la potenza della classicità risiede proprio nel poter sempre essere riletta e reinterpretata nei tempi futuri. Il mito di Pigmalione, volendolo riassumere in una sola frase, racconta di come Pigmalione si innamorò perdutamente della scultura che creò con le sue mani, a tal punto da sentire il disperato bisogno di chiedere alla dea Afrodite di tramutare in vita la pietra, così che il suo creatore potesse averla in sposa.
Nella rivisitazione di Miller, Galatea è una statua che il soffio della vita ha reso umana. Fredda come la pietra che era, il suo cuore batte tra le mura di una stanza di quello che sembrerebbe un ospedale. I medici la credono pazza quando afferma di essere fatta di pietra e la zittiscono con degli intrugli caldi che credono la facciano rinsavire, ma in realtà le tolgono le forze ora dopo ora. Suo marito, il suo creatore, viene a trovarla ogni giorno essenzialmente per una sola ragione: sfogare il suo desiderio sessuale. Il gioco inizia sempre nello stesso modo: quando lui entra nella stanza lei finge di essere ancora una statua, e quando lui prega che lei diventi una donna in carne e ossa, lei apre gli occhi e lui si prende il suo corpo. Un uomo freddo, distaccato, che non accetta che nel momento in cui Galatea ha preso vita ha acquistato anche la capacità di parlare, e soprattutto ciò che più lo infastidisce: la libertà che le permette di sfuggire al suo controllo, alla sua oscura e gelida possessione.
Pur essendo in origine una statua, l’unico ad avere un cuore di pietra è il marito, incapace di un qualsiasi atto d’amore, un uomo che ha costruito la sua esistenza su delle fondameta di tronfio egoismo.
Insieme hanno una figlia di appena dieci anni, Pafo, ed è per lei che Galatea trova la forza di dimenticare se stessa, la sua libertà, la sua volontà, in un atto di rinuncia e sacrificio che solo l’amore per una figlia permette di sopportare. Lei, donna che un tempo era una statua troppo perfetta per rimanere di marmo, vive per l’amore che nutre nei confronti di sua figlia.
Ciò che più mi ha colpito di questa lunga poesia sussurrata è la dualità della sua natura: fragile eppure così forte, come un diamante racchiuso nei petali di un narciso. La complessità umana, e soprattutto la difficoltà dell’essere donna, viene indagata con una delicatezza disarmante, che sfocia in un sentimento di amara tristezza. Il linguaggio utilizzato è dolce e affabile quando dialoga con il marito, ruvido e pieno di rabbia quando racconta la verità a se stessa:
Il punto è che mio marito non si aspettava che parlassi, credo. Non lo biasimo affatto per questo, dato che mi aveva conosciuta solo come statua, pura e bella e arrendevole alla sua arte. Naturalmente, quando mi bramava viva era quello il suo desiderio, ma più che viva mi voleva tiepida, quel tanto che bastava per potermi scopare.
Una dualità che trova conferma anche nei colori utilizzati dall’illustratrice per i disegni che accompagnano il racconto: sfumature di tenebra, dal grigio chiaro al nero imperscrutabile, uniti alla delicatezza di un rosa tenue, che si impone e spicca in mezzo al buio. Il rosa della fragilità, dell’umanità in tutta la sua complessità, e il grigio-nero della pietra, della freddezza del suo creatore, dell’oscurità della condanna di Galatea, relegata al silenzio.
Galatea, caso letterario dell’anno, riesce a interrogarsi sul nostro presente, denunciandone le ingiustizie e i temi che ogni giorno ci indignano, e lo fa attraverso un mito antico, distante quasi duemila anni da noi, eppure così attuale. Un dialogo del passato con il presente e il futuro, una voce femminile che emerge in tutta la sua forza e potenza, senza mai perdere la delicatezza e la bellezza che la caratterizzano, sin da quando altro non era che una statua di marmo perfetto.
Il finale lo scoprirete scritto nella sabbia del mare, nell’ultimo atto di dolcezza e amore di una madre.
Lidia Tecchiati