Nick Drake. Il ragazzo sotto la quercia
di Pippo Russo
Edizoni Clichy, 2021
€ 7,90 (cartaceo)
“When I was young, younger than before | I never saw the truth hanging from the door | And now I'm older, see it face to face | And now I'm older, gotta get up, clean the place”. È così che ho conosciuto Nick Drake, strimpellato e cantato con l’enfasi adolescenziale da amici in cerchio a un falò. Si era ancora troppo giovani per accorgersi di quella “verità pendere dalla porta”, perché per noi Nick era il sussurro palpabile, l’inesplorabile dei nostri pensieri e dei nostri corpi, era il profumo del vento che portava con sé tempesta. Anche noi eravamo alla ricerca di “un posto dove essere e fermarsi” (p. 25), ma allora ci accompagnava un ignoto puro e inspiegabilmente malinconico, apparentemente senza resa, ma con in serbo una soluzione. Ed è proprio per questo che a un certo punto le nostre strade si dividevano da Nick, da colui che nonostante l’incessante ricerca errante non trovava un posto per essere quello che era.
“È facile innamorarsi dei (e nei) tramonti di primavera e nelle notti d’estate. Ma sai quanta poesia nascosta c’è nei pomeriggi brevi e cupi di novembre, o nei parchi vuoti delle sere d’inverno quando ha appena smesso di piovere?” (pp. 17-18). Come cambiano le percezioni quando si cresce e si è adulti abbastanza per lasciarsi assorbire da innamoramenti intrisi di umidità e nasi freddi. Pippo Russo lo sa bene, e forse è proprio questa malinconica consapevolezza che lo ha spinto a scrivere un libriccino colmo di interrogativi e di amore per un artista accolto e apprezzato troppo tardi: Nick Drake. Il ragazzo sotto la quercia, per la delicata e intensa collana Sorbonne di Clichy.
Russo prova a (ri)tracciare, con la punta di una riguardosa penna, il sentiero calpestato dal ragazzo con la chitarra e con le parole che “ciascuno di noi sente dentro” (p. 26). Una breve biografia dell’artista prenderà per mano lettrici e lettori affinché possano godere appieno del ricordo e dell’ascolto, anche se Nick è come un colpo di fulmine, arriva così, all'improvviso, poi tutto il resto si lascia accogliere e interpretare “per come ciascuno lo recepisce” (p. 37).
E allora partite liberi, e lasciatevi annunciare dal corno di Nick Drake stesso, con Horn (in Pink Moon, 1972) in questo viaggio vagabondo, quasi nel senso romantico inglese, di quel wanderer alla ricerca di un’illuminazione altra, che nulla ha a che fare con la cosa terrena, eppure ne prende ispirazione.
Nick era colui che poteva arrivare per poi essersene già andato. Non aveva importanza chi lo aspettasse e perché. “Lui aveva un qualcosa da Messia, che non provava a fare nulla, eppure rendeva tutto più potente”, dice in un’intervista al Guardian Linda Thompson, cantante britannica del movimento folk rock degli anni ‘70. Non aveva molti amici, a parte Art Garfunkel e John Martyn, di cui divenne l’ombra, quasi la sua coscienza. Ed è proprio in Solid Air, scritta da Martyn per Nick Drake nel 1973, che riusciamo a comprendere in parte cosa li unisse e chi fosse per gli altri Nick.
“Tutte le mattine dovrebbero cominciare con le note di Time Has Told Me. Con la radiosveglia che in riproduzione casuale diffonde la selezione musicale migliore per l’inizio del giorno. O con il timer impostato su quel brano che mai ti stancheresti di ascoltare. […] E tutte le mattine sarebbe come scivolare dolcemente dal sonno alla veglia. Senza traumi.” (pp. 20-21).
Sebbene Nick fosse un ragazzo atipico, un outsider che se ne “stava al margine del flusso” (p. 38), di cui si racconta fosse agorafobico e perciò avesse difficoltà a confrontarsi con il pubblico e la stampa (“pochi concerti, condotti in modo goffo e con una potente sensazione di disagio” p. 39). Nonostante ciò, Nick è l’inizio del giorno senza traumi. Eppure, egli è il cantore della malinconia, secondo Russo uno stato d’animo che non si può condividere come la gioia e il dolore. “E come spiegare a tutti costoro la bellezza della malinconia? […] La tua musica è il mezzo per dirsela, la malinconia. Per coglierne ogni sfumatura” (p.19).
Un codice indecifrabile e incomunicabile, quasi esoterico, e a tratti ermetico: questo è il linguaggio che Nick Drake, scrive Pippo Russo, offriva a un pubblico incapace di comprendere. E viene da chiedersi, cos’è cambiato rispetto agli ascoltatori del passato? Ora siamo pronti? O prendiamo la superficie di Nick facendocela bastare, autoconvincendoci che la dimensione altra in cui ci trasporta, tramite un altoparlante e una riproduzione casuale, è la chiave della comprensione?
O semplicemente scegliamo di non capire ma di ascoltare il fiume di suoni e parole che scorre sotto gli occhi e le dita di quel River Man che “si lascia piovere sulla testa anziché cercare di essere uguale agli altri” (p. 42)?
Please tell me your second name | Please play me your second game | I've fallen so far | For the people you are | I just need your star for a day.
[Ti prego, rivelami il tuo secondo nome. Ti prego, gioca per me una seconda volta. Sono precipitato tanto lontano visto quello che per me rappresenti mi basterà la luce della tua stella per un giorno soltanto] (p. 69).
Fly, 1970
Grazie Nick.
Olga Brandonisio