"Il primo viso che scorgo all’aerodromo del Messico è quello di un amico spagnolo…Ora, altri compagni come lui, a New York e a Città del Messico, hanno lottato quattordici mesi per assicurarmi questo viaggio, questa evasione. Senza di essi ero quasi irrimediabilmente perduto…Nelle vie di Città del Messico, provo la sensazione singolare di non essere più fuori del diritto. Non essere più l’uomo braccato, provvisoriamente in attesa di internamento o di sparizione…Chiudo queste memorie sulla soglia del Messico", (p. 420)
Così scrive Victor Serge (pseudonimo di Viktor L’vovič Kibal’čič adottato in Spagna) nelle ultime pagine di Memorie di un rivoluzionario (Edizioni e/o), giunto in esilio in Messico dopo essere stato vittima di arresti arbitrari e persecuzioni a causa della sanguinaria repressione del regime stalinista verso la generazione dei vecchi, coloro che avevano partecipato alla Rivoluzione del 1917 ma avevano rifiutato, in seguito, di appoggiare la politica della macchina sovietica del terrore. Spiriti illuminati come Serge che hanno sempre levato la propria voce contro l’annientamento e la distruzione dell’uomo sull’uomo e la libertà del suo pensiero. Serge resiste alla calunnia e alla lotta per la sopravvivenza quotidiana senza mai fare abiura, neanche negli anni della deportazione in Siberia nei pressi del fiume Ural, condividendo la disperazione e la miseria della condizione umana con gli altri detenuti.
Durante l'esilio messicano Serge continua la sua attività di militante rivoluzionario e, come sempre, usa la scrittura, grazie alle sua abilità di grande narratore, collaborando attivamente con riviste europee e nordamericane. Muore il 17 novembre 1947, stroncato da un infarto in un taxi di Città del Messico, dove conduceva una vita di stenti.
Queste brevissime annotazioni biografiche si rendono necessarie per riflettere sullo sguardo di Serge verso la catastrofe naturale raccontata in questo piccolo saggio narrativo: la nascita di un vulcano come conseguenza di una serie di terremoti che interessano lo Stato di Michoacán, a ovest di Città del Messico, a partire dal 1943. Il vulcano è il Paricutín o Parícutin (nella lingua purépecha Parhíkutini, luogo all'altro lato) uno dei più giovani al mondo e si trova nei pressi del villaggio di San Juan Parangaricútiro che, insieme al villaggio Paricutín, dal quale prende il nome, rimasero completamente sommersi dalla sua eruzione protrattasi per nove lunghissimi anni. Si racconta che da una spaccatura del terreno cominciarono a uscire in abbondanza lave e lapilli, accompagnati da boati che dopo una settimana portarono il cono vulcanico a un’altezza di 150 m. Ora il vulcano è alto circa 500 m. Non ci furono vittime perché, grazie al ritmo lento delle colate laviche, la popolazione ebbe sufficiente tempo per mettersi in salvo.
Quest’evento, più unico che raro nella vita di un uomo, viene illuminato dalla potenza evocativa della scrittura di Serge che, immerso in terra messicana, sembra piegare la sua parola ferma di rivoluzionario a una lingua incantata, recuperando forse quello spirito semicosciente a cui è necessario attingere nella preparazione di rivolte e rivoluzioni. Quello stato mentale che spinge alla lotta nonostante le avversità della realtà e che predispone alla percezione di visioni di altri mondi possibili.
"La mia esperienza di terremoti comincia nei sogni ed è legata ai sogni […] L’uomo sveglio […] non si accorge della maggior parte dei 2000 temblores. Ma forse nel sonno ritroviamo un contatto più immediato, meno cieco, con i fatti del cosmo", (p. 15)
Serge, il sopravvissuto, abituato a catastrofi sociali provocate dall’uomo,
si trova ora a osservare una catastrofe naturale: non può fare a meno di
paragonare le paure dovute a bombardamenti, delitti, arresti arbitrari,
prigionie a quelle causate da questo sciame sismico prolungato, pur esaltando la
differente intensità dei due momenti: "Il terremoto suscita un panico animale,
diverso dal panico umano perché non coinvolge la coscienza…si sente, soltanto
più tardi ci si pensa”, (p. 26)
In questo stato meditativo recupera coincidenze come quella di aver dato al suo ultimo romanzo il titolo provvisorio La terra cominciava a tremare, dove uno dei personaggi è un sismologo; recupera profezie precolombiane come quella sulla Quinta Era della mitologia azteca, Era dei Terremoti che si sarebbe conclusa con una catastrofe sismica. E superstizioni, raccogliendo credenze popolari che interpretano il fenomeno come un castigo perché, a quanto pare, in quel preciso punto del villaggio San Juan Parangaricútiro era stata strappata una croce dalla terra.
Sono vivide le descrizioni del paesaggio messicano, non solo nei suoi aspetti naturalistici, così diversi da quelli europei e russi, ma anche di quelli antropologici: si dà vita con la scrittura ai volti degli indios rassegnati e piegati dalla miseria da un lato, colti nella loro quotidianità, vinti come bestie, e l’arrivo di turisti nordamericani attratti dal fenomeno dall’altro. La sequenza di tali immagini genera una narrazione inedita nella quale si consiglia di avventurarsi.
Nell'Introduzione, Goffredo Fofi ci racconta di essere stato autorizzato a suo tempo dal figlio di Serge a pubblicare questo scritto nella traduzione di Sergio Atzeni sulla rivista Linea d’ombra; versione oggi riproposta da Edizioni e/o. Fofi esalta il valore storico e scientifico, oltre che letterario, di questo saggio che dialoga con «le nuove forme di militanza che hanno al loro centro il rapporto con la natura».
Da quest’esperienza nasce in Serge una nuova consapevolezza della Natura, molto vicina alle sensibilità oggi centrali nel dibattito ecologista e ambientalista ("Sento che la vita vegetale ci è prossima e necessaria", p. 65); la sua storia personale, inoltre, e il suo saldo spirito critico, gli consentono poi di cogliere il peso delle responsabilità da parte dell’uomo nell’evitare, o quantomeno arginare le conseguenze di alcune catastrofi naturali; riflessione simbolicamente condensata nell’immagine di una casa distrutta dal terremoto:
"Vedevo chiaramente un letto di ferro che non si era mosso in una stanza gialla del terzo piano. Una giovane rifugiata catalana e i suoi due bambini erano rimasti uccisi, sacrificati a una proprietà immobiliare priva di scrupoli (stiamo attenti a non confondere le cause sociali con quelle cosmiche…)", (p. 23)
Un invito a resistere a conclusioni troppo fataliste che potrebbero togliere spazio all’azione politica; posizioni che oggi si riverberano nel dibattito sulle cause della pandemia in corso: decisioni politiche sul nostro sistema economico e sul nostro stile di vita potrebbero limitare gli effetti di alcuni fenomeni naturali?
Social Network