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Quando una villa è lo specchio di un'epoca: "Côte d’Azur 1920-1960", gli anni d'oro della Riviera francese raccontati attraverso lo Château de l’Horizon

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Côte d’Azur 1920-1960.
Gli anni d’oro della Riviera francese

di Mary S. Lovell
Neri Pozza, 2021

Traduzione di Maddalena Togliani


pp. 366

€ 22,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Sembrava evidentemente l’estate, in coincidenza con la sua uscita in Italia per Neri Pozza, il momento ideale per leggere un libro come Côte d’Azur 1920-1960. Gli anni d’oro della Riviera francese, e invece non c’è forse stagione migliore dell’autunno (o direttamente dell'inverno) per apprezzare questo lavoro di Mary S. Lovell la cui edizione originale risale a ben cinque anni or sono. Sarà per il malinconico senso di decadenza che si coglie nelle ultime pagine, quando la fine dell’epoca più raggiante per la costa sud della Francia ricorda non a caso certi “viali del tramonto” di memoria cinematografica, e sarà per lo struggimento che sempre accompagna la chiusura degli alberghi, degli stabilimenti balneari e delle seconde case di villeggiatura, che ripiombano nel buio degli infissi ben serrati in attesa di rinnovarsi di luce a partire dalla primavera; un topos, quest’ultimo, celebrato anche da miriadi di struggenti canzoncine del filone balneare. Proprio il riferimento “immobiliare” non paia, tuttavia, una trascurabile casualità. Quella scritta dall’autrice, difatti, è, sì, la storia di un’epoca, ma raccontata attraverso la biografia di un edificio, ovvero il mitico Château de l’Horizon, una villa tutta bianca costruita in stile art déco vicino a Cannes che fu dapprima la creatura e il regno dell’attrice americana Maxine Elliott e successivamente la magione del principe Aly Khan: un contesto esclusivo per persone (e personaggi e personalità) altrettanto esclusive, che nei quarant’anni che sono oggetto della trattazione fa da sfondo sia ai miti del tempo sia alla loro inevitabile caduta.

Quella adottata da Mary S. Lovell è senza dubbio una prospettiva originale: se il punto di osservazione prescelto fosse stato, per esempio, un grande albergo rivierasco, l’effetto sarebbe stato immediatamente più mondano, e il lettore, magari, sarebbe stato attratto dalla curiosità di ritrovare tra le pagine un soddisfacente corollario di aneddotica e di gossip d’altri tempi, quando “gli scandali al sole” riguardavano solo figure di gran classe che pernottavano in suite di lusso. Sebbene la mondanità non faccia certo difetto a queste quasi quattrocento pagine – e anzi i nomi celebri sono talmente tanti che, come nella migliore delle soap opera, si fatica a tenerli tutti bene a mente – il focus su una residenza privata conferisce già un presupposto critico: non la neutralità di un qualunque complesso alberghiero, bensì una casa che, per quanto sempre aperta agli ospiti come un vero e proprio buen retiro e refugium peccatorum, non può non recare impressa l’impronta e la filosofia di vita dei rispettivi proprietari. Che non poterono essere più diversi tra loro nell’intendere, tra le altre cose, il concetto stesso di socialità.

Strutturato in tre parti incorniciate da un’introduzione e un epilogo (e c’è anche un’appendice che, come accade in certi film o documentari nel momento che precede i titoli di coda, spiega “cos’è successo ad alcune delle personalità più importanti citate in questo libro dopo il 1960”), il volume ricostruisce dunque l’epopea dello Château de l’Horizon senza tacere i fatti della vita della sua prima ideatrice e padrona e del suo successivo acquirente. Così, mentre nel caso di Maxine viene, per esempio, dedicato ampio spazio al suo rapporto con Winston Churchill, che beneficiò in più occasioni dell’ospitalità dell’amica, quando il focus si sposta sulla “gestione” di Aly Khan i toni si fanno meno politici e diplomatici per adeguarsi al mood decisamente più “spettacolare” del nuovo padrone di casa, in primis per quanto riguarda il racconto del suo tormentato matrimonio con l’attrice Rita Hayworth. In questo senso, pur essendo stata, fin dalla sua inaugurazione, teatro di svago, relax e divertimento, la villa diventa quasi la cartina di tornasole dei mutamenti che riguardarono anche lo stile di vita dei ricchi/famosi/potenti (e aspiranti tali) tra gli anni Venti e gli anni Sessanta, senza dimenticare il ruolo avuto in queste dinamiche dalle due guerre mondiali (lo stesso edificio ne portò variamente i segni). Le figure che si muovono su questo palcoscenico sono numerose: dalle più determinate arrampicatrici sociali, ben disposte a fare mercimonio del proprio sembiante pur di godersi la vita e arrivare abbastanza in alto, a grandi nomi che hanno fatto la storia del Novecento e che ancora oggi sono oggetto di curiosità e di studio (si pensi al duca e alla duchessa di Windsor, vera e propria coppia dello scandalo che fu ripetutamente di casa in Costa Azzurra, o a Gianni Agnelli, qui raccontato nel clou delle sue avventure giovanili).

Libro che sembra promettere sogni d’oro, quello di Mary S. Lovell è invece un lavoro che concilia solo fino a un certo punto le classiche fantasticherie in materia di beau monde e relativa crème de la crème. Non tanto perché si tratta di un’epoca conclusa e irripetibile che ha lasciato il posto a innumerevoli imitazioni mal riuscite, epigoni più grotteschi che tristi, cadute di stile e scivolamenti di gusto, ma perché già al suo interno, tra i suoi animatori e agitatori, queste tare erano fin troppo evidenti, alla stregua di tante zone d’ombra sul candore abbacinante di un centro di gravità come lo Château de l’Horizon: macule di degenerazione in nuce, insomma, simili a quei nei apparentemente innocenti e magari dalla forma appena bizzarra che piano piano, complice anche il troppo sole – e che sole, quello rivierasco! – si trasformano in qualcosa di peggio. Le parole di William Somerset Maugham, che definì la Riviera “un posto soleggiato per gente losca”, sono davvero il perfetto sottotesto di un libro che comunque non tace (perché non può tacerlo) un sistema di rapporti interessati, di legami raramente autentici e sinceri, in ogni caso basati, oltre che su una rigida selezione garantita dal lignaggio e dal denaro, sugli imperativi della reciproca convenienza e della scalata sociale (come anche della noia e del tentativo disperato e talora autodistruttivo di vincerla, specialmente con l’esagerazione in ogni senso intesa). Occorreva forse la giusta distanza – sessant’anni si sono dimostrati più che sufficienti – per osservare un mondo come questo attraverso le lenti più oggettive e imparziali: Mary S. Lovell c’è riuscita, soprattutto nella consapevolezza di come ciò che luccica non sia sempre, e non del tutto, quel metallo prezioso del cui valore ci si vorrebbe tanto illudere.

Cecilia Mariani