Recinzioni. Le serie
di Johnny Palomba
Fandango, 2021
pp. 192
€ 15,00 (cartaceo)
Si intitola Recinzioni, ma non ha niente a che fare con staccionate, transenne, fili spinati e muretti a secco. O almeno: non in senso letterale. Perché se dal piano realistico si passa a quello metaforico ecco allora che la misura di contenimento si manifesta nell’evidenza di poche centinaia di battute in carattere Courier New (quello, per intenderci, utilizzato nelle sceneggiature). E se poi si tiene anche conto del fatto che l’autore delle brevi prose appena pubblicate da Fandango Libri è Johnny Palomba, il più verace critico cinematografico e televisivo (e non solo) in circolazione da almeno vent’anni a questa parte, sarà altrettanto chiaro che, in romanesco parlando, è di “recensioni” che qui si va a trattare. E che recensioni: perché stavolta si tratta delle serie TV di ieri e di oggi, quelle messe in onda degli esordi nostalgici del tubo catodico a colori fino ad arrivare allo streaming più selvaggio e in HD offerto da Netflix & Co. E pazienza se – come per esempio chi scrive questo commento – non si è nemmeno fan sfegatati del genere: più le si legge e più queste “critiche perimetrali belle e infedeli” bastano da sole a fare lo spettacolo.
Chi ne conosce l’artefice lo sa: Johnny Palomba (al secolo Pietro Martinelli, scrittore, autore e conduttore radiofonico) è di quelli che quando raccontano o riassumono una storia riescono in qualche modo a raccontarne un’altra, aggiustandola e migliorandola con uno stile esilarante dato dal mix tra slang e dialetto messi al servizio di uno sguardo particolarmente occhiuto. Perché se le sue critiche ai film del passato e del presente lo hanno fatto conoscere e apprezzare dagli stessi addetti ai lavori – che, da Nanni Moretti a Valerio Mastandrea, non si sono fatti mancare l’occasione di incontri e reading con alto gradimento di pubblico – è sempre per quell’inconfondibile cifra fatta di sintesi, schiettezza e sbracamento, senza dimenticare quella che, con licenza poetica, si potrebbe definire una specie di reductio ad Romam et provinciam: non solo perché, si sa, la Capitale resta pur sempre Caput Mundi, ma anche perché interpretare il mondo global della fiction internazionale con categorie orgogliosamente local fa sentire che l’intero globo terracqueo è davvero paese.
Introdotte quasi sempre da un incipit enfatico che ci fa sentire subito in medias res – un “chenfatti” al quale ci si affeziona, e che torna e ritorna a multiple riprese come intercalare – le recensioni di Johnny Palomba passano in rassegna quanto di più popolare sia mai stato sceneggiato per il piccolo schermo dalla seconda metà del Novecento ai nostri giorni: serie quasi sempre americane, talvolta italiane e finanche coreane (sì, Squid Game è presente all’appello). Ma l’internazionalità, alla fin fine, è davvero un dettaglio se si è nati nel Bel Paese: che cos’è mai la famigerata wilderness se paragonata ai paesaggi abruzzesi, umbri e molisani? Che cosa ne sanno di vera malavita i ghetti e i bassifondi più malfamati delle metropoli made in USA se poi è la Gubbio di Don Matteo a vantare la più imbattibile percentuale di crimini efferati? E che differenza potrà mai esserci, in fondo, tra gli ospedali che sono teatro dell’azione in E.R. e Grey’s Anatomy e i più prossimi San Camillo e Santo Spirito? Per il nostro recensore giusto qualcuna, e se magari vi affidate a lui per saperne di più sulla caratterizzazione dei personaggi state pur certi che il filtro privilegiato per contemplarli sarà quello che per maggiore immediatezza li inquadrerà, per dire, in “pariolini” e “burini”. Senza dimenticare che per ogni “contributo informativo e valutativo” (una recensione non è altro che questo) Johnny Palomba non manca mai, come suo solito, di aggiungere in coda, separate da una spaziatura bianca, una o due righe di “verità” in cui si informa il lettore che qualcosa di simile alla serie in esame è capitato anche a lui, a un amico o a un suo parente (perché pure “minonno”, “mizzio”, “micuggino” e “micognato” hanno biografie che se ti lasci convincere non hanno nulla da invidiare a certi kolossal).
Esaltazione purissima del “parla come mangi (anzi: magni)”, queste critiche spassionate eppure così accorate si danno il cambio una dopo l’altra, simili a quanto di più sapido e complice dell’ipertensione e della ritenzione idrica si è soliti sgranocchiare davanti una fiction, genere di consumo per antonomasia (e il sale, lo sanno tutti, dà dipendenza). Certo, per chi nutre una personale antipatia per il vernacolo ci sarà poca ciccia: sgrammaticature libere, grafie e trascrizioni creative, perifrasi che fanno giri immensi e non ritornano, sintassi friccicarella e punteggiatura a caso e alla bisogna come i coriandolini di zucchero sulle ciambelle americane (e ci risiamo con il trash food, ma è proprio il genere in sé a richiederlo). Una chance, tuttavia, vale proprio la pena di concederla: basterà attivare la classica sospensione dell’incredulità e far finta che Johnny Palomba sia né più né meno che un caro amico (ma va bene anche un perfetto estraneo) di cui ascoltare un breve sproloquio a tema, un po’ per curiosità e un po’ cortesia. Forse non si diventerà spettatori seriali, ma di certo si avrà fatto un’esperienza doc di “canto parallelo”. Ché la parodia, in fondo, questo è, e quando se la spassa tra le righe di una recensione il plauso non può che andare all’intelligenza, all’ironia e alla carica irresistibile e liberatoria della vox populi: quella di chi, della serie, c’ha capito tutto e quella di chi, altrettanto beatamente, non c’ha proprio capito niente.
Cecilia Mariani