Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia
di Zerocalcare
Bao, novembre 2021
pp. 224
€ 18 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
Si può stare nel mainstream mantenendo qualche forma di dignità e autonomia? (Il castello di cartone, p. 187)
Ruota tutto intorno proprio a questa domanda qui la vita di Zerocalcare, il fumettista più famoso d’Italia, e la stessa riflessione sulla sua opera. Un nome che negli ultimi anni è diventato noto al grande pubblico, anche tra quelli che i fumetti non li consideravano, non di certo come opere dalla possibile valenza letteraria. Ma improvvisamente abbiamo scoperto questo ragazzo capace di raccontare noi stessi e il mondo complesso in cui ci muoviamo con lucida e feroce ironia, scegliendo sempre da che parte stare, anche quando è scomodo. Quella domanda iniziale, quella che lo accompagna da tutta la sua carriera professionale, sembra farsi ancora più pressante alla luce del successo della sua ultima “impresa”, la serie tv Strappare lungo i bordi prodotta da Netflix e disponibile da un paio di settimane. Per giorni sui social – e in parte anche sulla stampa – non si è praticamente parlato d’altro, ogni cosa è stata analizzata, vivisezionata fino all’ossessione, criticata e amata altrettanto ferocemente.
Zerocalcare provoca reazioni opposte, lo si ama o lo si odia e i difetti riscontrati dai suoi detrattori sono probabilmente i più grandi pregi per gli altri e ciò che lo caratterizzano come autore, che scelga un mezzo espressivo o un altro. La – velocissima – parlata romanesca, l’attenzione ai temi sociali, i luoghi privilegiati delle sue narrazioni, i fantasmi e le personali ossessioni. Senza addentrarsi troppo nelle considerazioni sulla serie non essendo questo il luogo, quel che appare evidente è quanto sia appunto Zerocalcare puro: la narrazione, l’equilibrio fra commedia e dramma, la capacità di guardare l’abisso mettendo a nudo le paure e le incertezze di ognuno di noi per poi cercare un appiglio, una leggerezza, che non sempre si trova. È stato come sfogliare uno dei suoi graphic novel e vederlo animarsi – la voce di Mastandrea sarà ora e per sempre quella dell’armadillo – ma moltiplicando le possibilità della narrazione, arricchita di dettagli, musica, rimandi, strati.
All’epoca di Macerie prime si era usata l’etichetta – non del tutto condivisibile – di romanzo generazionale, e se è vero che Zerocalcare dà voce alle frustrazioni, le incertezze e i desideri di noi trentenni e qualcosa di più, con continui rimandi alla cultura pop entro cui ci siamo formati, altre opere e la serie di cui sopra dimostrano quanto tale etichetta gli stia stretta e la capacità di andare oltre i riferimenti generazionali più diretti.
Qui a Critica siamo lettori curiosi che non fanno sterili distinzioni di genere, detestiamo gli snobismi e il graphic novel è una forma letteraria – scelgo questi termini assolutamente non a caso – che trattiamo al pari di ogni altra opera narrativa ed era naturale che anche Zerocalcare entrasse nel nostro radar diversi anni fa. Nel mio caso è stato un colpo di fulmine – con risvolti anche nella mia vita personale – , una scoperta casuale nella calma di una serata dell’allora lavoro in libreria, ma da quelle pagine non sono più riuscita a staccarmi; non possiedo un solido background da lettrice di fumetti seriale, e credo che anche per questo Zerocalcare rappresenti un caso particolare, per la capacità di arrivare a lettori tanto diversi. Non aspettatevi quindi da parte mia profonde riflessioni sulla storia recente del fumetto italiano, digressioni sulle sue origini e colte citazioni, perché ammetto di non possedere il bagaglio culturale necessario per potermi considerare un’esperta di fumetti, ma mi sono ritrovata a confrontarmi fin da principio con questa forma in modo molto simile a quanto faccio con ciò che rientra maggiormente nella mia area di competenza letteraria: leggo attentamente, mi documento, cerco di inquadrare l’opera nel contesto storico-culturale, mi soffermo su tematiche e spunti, sulla tecnica espressiva e il dialogo con la contemporaneità. E mi sono convinta, forse per giustificare le mie stesse lacune chissà, che i romanzi di Zerocalcare si possano leggere proprio come tali, applicando perciò gli stessi strumenti critici che userei per un romanzo privo di immagini.
E se vogliamo usare i termini della narrativa “tradizionale”, ecco che Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia, l’ultima pubblicazione da poche settimane in libreria sempre per Bao, può essere considerata una raccolta di racconti, forse anche tra le più pure che mi sono capitate per le mani nell’ultimo periodo dove ogni storia invece sembra dover essere legata alle altre a comporre quasi un romanzo. Ecco, le cinque storie di questo volume sono altrettanti racconti indipendenti l’uno dall’altro, in cui il filo rosso se c’è è la voce unica del suo autore, lo stile grafico delle tavole, il desiderio di riflettere sulla realtà che ci circonda, anche quella più scomoda. Delle cinque solo una è un inedito, l’ultima, mentre le altre erano apparse su riviste come L’Espresso e Internazionale, ma raccolte in volume e lette in successione sono un faro interessante su dove si sia posato quest’anno lo sguardo dell’autore e, di conseguenza, noi con lui. Sono storie scritte nel 2021, ma la pandemia pur essendo presente come inevitabile è raccontata in modo peculiare – e non in tutte. È, per esempio nella durissima realtà delle carceri durante il lockdown rappresentata in “Lontano dagli occhi lontano dal cuore” o in “Romanzo sanitario” che mette in luce le problematiche legate all’indebolimento della sanità territoriale, specie in una situazione delicata come quella pandemica attuale.
Ma la narrazione si apre anche ad altri aspetti del mondo contemporaneo, a questioni diverse che hanno occupato – non con pari rilevanza purtroppo – le pagine dei giornali nel corso dell’anno: c’è la riflessione sulla cancel culture (“La dittatura immaginaria”), il reportage dal Kurdistan iracheno ("Etichette") e, a chiusura, l’inedito dedicato alla creazione della serie Netflix (“Il castello di cartone”) con tutto ciò che ha implicato in termini di ansie, dubbi, possibilità. Ognuna di queste storie è, a suo modo, importante e capace di suscitare dibattito. Perché, a mio parere, è proprio questa la forza peculiare di Zerocalcare: illuminare le zone d’ombra, raccontare il mondo e le sue questioni urgenti senza edulcorare niente, ma ponendoci di fronte anche a particolari scomodi, controversi, per spingere il lettore a riflettere e prendere una posizione. Che non per forza deve essere quella dell’autore, sia chiaro, il suggerimento implicito in ogni storia è casomai quello di sforzarsi di osservare con attenzione il mondo intorno a noi e scegliere da che parte stare, non accontentarsi di una descrizione superficiale o di parte ma imparare a trovare da noi le nostre risposte.
Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia è un testo importante, aperto all’esterno, che nonostante le tematiche trattate riesce a mantenere quel caratteristico equilibrio fra commedia e dramma, ironia e riflessione. E che ci porta a osservare le cose da punti di vista differenti. Anche la guerra, anche un campo profughi, anche una situazione intricata e scomoda come quella del popolo curdo, il Pkk (considerato da Stati Uniti, Unione Europea e Turchia di Erdogan un’organizzazione terroristica) e il Confederalismo Democratico. Nel tentativo mancato di entrare nel campo profughi di Makhmour, Zerocalcare incontra una delegazione di curdi che risiedono nel campo che, di lì a poco, sarebbe stato bombardato, raccontando in una narrazione che richiama Kobane Calling zone d’ombra e criticità di una situazione su cui l’attenzione internazionale sembra guidata da interessi politici più che umanitari e presentando al lettore un quadro complesso, pieno di ombre e ambiguità:
Le storie di guerra sono anche questo, portano con loro cose che non ci piace sentire, che ci fanno fare i conti con la realtà e la coscienza e quello che siamo disposti ad accettare. Sono più complesse delle favole. (Etichette, p. 116)
Mutano le tematiche trattate, ma non l’intensità delle questioni affrontate in tutte le storie di questa raccolta, ognuna a proprio modo articolata. Nelle zone d’ombra, nelle tematiche controverse, Zerocalcare si muove da sempre con consapevolezza ed è proprio lì che i suoi racconti si costruiscono. Che sia la terribile situazione dei curdi o quella dei detenuti nelle carceri durante la pandemia, negli scontri e nelle violenze, guardiamo qualcosa che fino a quel momento quasi mai ci è stato raccontato nella sua interezza, da entrambe le parti, con la lucidità di chi non accetta di liquidare sommariamente una questione che è troppo complessa e ambivalente per rigidi schieramenti fra giusto o sbagliato:
Il punto non è giusto o sbagliato. Il punto è che in carcere non c’è modo di chiedere le cose. Non ti ascolta nessuno. Tu lì non esisti. (Lontano dagli occhi lontano dal cuore, p. 21)
Alle questioni sociali e politiche, Zerocalcare alterna da sempre riflessioni più intimiste e anche dietro una storia dall’apparente leggerezza è evidente il peso di certi fantasmi, le insicurezze e un sentire complicato. Con "Il castello di cartone" ridiamo per le battute fulminanti dell’armadillo, ma basta poco per accorgersi che non è solo il racconto ironico del dietro le quinte della creazione di Strappare lungo i bordi, ma una riflessione più ampia e universale sul fare i conti con la propria coscienza e il timore di tradire sé stesso e i propri punti di riferimento.
È quella domanda posta inizialmente, la paura più profonda di un autore che si muove in bilico fra mainstream e delicate questioni sociali, un pubblico sempre più grande ad ascoltarlo e, con questo, una responsabilità ancora maggiore. Ecco, sulla responsabilità delle parole scelte da chi di mestiere si trova a usarle di fronte a un pubblico più o meno ampio, è interessante la storia "La dittatura immaginaria", che tenta di spiegare le complessità della cancel culture, i fraintendimenti che ne sono derivati e, soprattutto, la responsabilità di chi come noi seppur in forme diverse lavora con le parole.
Alleniamo la nostra sensibilità, scegliamo da che parte stare, abbiamo cura delle parole che usiamo: è nostro dovere e nostra responsabilità.