Andorra
di Peter Cameron
Adelphi, 2014
Traduzione di Giuseppina Oneto
pp. 236
€ 18,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
È un’Andorra
immaginaria, con un’immaginaria capitale, quella da cui prende il via il
romanzo di Peter Cameron. In equilibrio tra il mare e le montagne, pare il luogo in cui ricominciare per
eccellenza: esotico, lontano, perfetto per inaugurare una vita nuova e diversa
dalla precedente.
Che questa sia
solo un’impressione è ben chiaro al narratore che, dopo essersi lasciato tutto
alle spalle, vi si è trasferito per trovarsi in realtà a condurre una stessa
esistenza, “però in un altro paese” (p.
13). Eppure nella piccola La Plata, che non ha nulla della ricchezza e del
carattere internazionale della vera Andorra La Vella, è possibile sentirsi finalmente accolti, finalmente vivi: “mi sono sentito immerso nel mondo come mai
prima. Il mondo mi era tutto intorno, terso, vivo come me e io mi sentivo vivo
in esso come se mi fossi risvegliato da un coma” (p. 20). E se anche c’è
una tragedia che giace alle sue spalle, lì forse può essere “trascesa, dimenticata, cancellata” (p. 17).
Avvolto dallo
stordente profumo dei lillà e dalla curiosità un po’ invasiva degli abitanti,
il protagonista si concentra esclusivamente
sul presente, sulla camera in cima alla torretta dell’hotel Excelsior,
sulla piazza antistante, sui bizzarri incontri che fin da subito inizia a fare.
Anche per questo decide di tenere un diario,
che immaginiamo coincidere con la narrazione stessa. Il suo intento è
ambizioso:
Avevo paura di commettere un altro errore, ben conoscendo la facilità con cui gli errori portano alla tragedia […]: volevo essere una persona in gamba, limpida, e condurre una vita intensa, trasparente, bella, positiva. Là, ad Andorra. (p. 63)
Viene però da
chiedersi, vedendo il protagonista agitarsi più o meno goffamente nella fitta rete di relazioni sociali di cui
si costituisce la città, se le buone intenzioni in tal senso effettivamente
bastino. Come può Mr Fox rifuggire dal “tratto
predatorio e disperato” (p. 47) di Mrs Ricky Dent, o resistere ai progetti
matrimoniali che la matriarca Sophonsobia Quay presumibilmente ha per lui e la
sua figlia dagli occhi tristi? In un luogo in cui chiunque arrivi viene subito
considerato cittadino e “non si può non
essere inseriti nella società” (p. 43) per dettame costituzionale, essere
il nuovo arrivato, quello su cui si puntano tutti gli occhi, si proiettano
tutte le aspettative, non è così facile, soprattutto se ci si trascina dietro
un bagaglio ingombrante che si vorrebbe nascondere.
Nel prosieguo
delle pagine, si avverte sempre di più il contrasto
sottile e stridente tra la perfezione apparente della cittadina, limpido
esempio di inclusione, tolleranza, democrazia, e l’imperfezione invece delle persone che la abitano e dei rapporti
che li legano. Andando poco oltre la superficie, appaiono crepe profonde, che
gli abitanti vorrebbero celare come la polvere sotto al tappeto. Alex, però, ne
ha alcune intuizioni, soprattutto quando si trova implicato in vicende poco
chiare che alterano la quiete della comunità e coinvolgono lui e i suoi nuovi
ma stravaganti amici, i Dent: “mi
sembrava di vedere Andorra dietro le quinte, le stanze grigie e senza finestre
dietro al favoloso scenario” (p. 85). Che Andorra sia in realtà uno Stato
di Polizia, e che la requisizione del passaporto “per un giorno o due” sia preludio a qualcosa di ben più
inquietante, il protagonista inizia a sospettarlo solo tardivamente.
Lui stesso del
resto non sembra voler dire, neanche al
lettore, tutta la verità, diviso come si trova tra due donne, e tra due
possibilità molto diverse per la nuova esistenza che vorrebbe costruire. Al
contempo, i sensi di colpa legati al
passato che lo paralizzano, la ricerca ossessiva, anche se mai esibita, di
una qualche forma di assoluzione, sembrano precludergliele entrambe.
“Se non ci riusciamo [a spiegarci], allora come possiamo essere capiti e assolti?”“Assolti? Cerca un’assoluzione?”.“Sì, l’assoluzione che proviene dall’essere compresi fino in fondo e accettati da un altro essere umano”.“Non sarebbe meglio che si rivolgesse a Dio?”.“Ma io non ci credo, in Dio, per cui l’assoluzione devo cercarla nelle mie relazioni terrene”. (p. 159)
Eppure le sue scelte, anche ad Andorra, sembrano condurlo lontano da questa accettazione e quindi da quella che lui
considera l’unica salvezza possibile.
La sua massima preoccupazione, quella di essere una persona orribile, sembra
confermata a più riprese nel corso della narrazione dalle persone che lo
circondano e gli sono diventate care.
Bisogna
conoscere bene i propri personaggi per poterli spogliare di ogni fronzolo descrittivo, ridurli alla loro essenza
come sa fare Cameron. Con il tocco delicato che gli è consueto, associato però
all’assoluta precisione nel dominio del
linguaggio, l’autore sfiora il
dramma di un uomo, ponendolo sempre ai margini della scena, mai al centro.
Il romanzo,
pubblicato del 1997, è stato edito in Italia da Adelphi solo nel 2014, e si
avverte quindi lo scarto profondo tra il tempo narrato e quello in cui vive il
lettore. Questo non fa però che aumentare il fascino lontano di Andorra, che pare (come del resto è) un paese
che non trova spazio sulle carte geografiche, e le cui stagioni seguono un
ritmo tutto interno, diverso da quello del resto del mondo. Andorra
rappresenta, per chi cerca di evadere da se stesso e dai propri trascorsi,
l’unica scappatoia possibile, ma rischia di diventare presto anche gabbia
dorata – assume così un aspetto ambiguo, quasi fatalistico, il fatto che “da Andorra non se ne va nessuno e arrivano
sempre persone nuove” (p. 33). Mentre poco alla volta scopriamo di più su
Alexander Fox e iniziamo a sondare le sue motivazioni profonde, sempre in bilico tra l’empatia e una sottile
repulsione morale, iniziamo a percepire lo sguardo agrodolce con cui Cameron traccia i destini dei suoi
personaggi, suggerendoci con un ultimo colpo di coda narrativo che la
possibilità di fuggire per trovare una pienezza di senso è possibile solo tra le pagine di un romanzo,
non nella vita reale. E che la soluzione per chi è irrisolto rimane sempre, in fondo, quella di guardarsi allo specchio e dire ad alta voce, prima di tutto a se stesso, la propria umana miseria.
Carolina Pernigo
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