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«E Mengo, più degli altri, era quest'abbraccio: memoria e scordanza»: le "Cronache dalle terre di Scarciafratta", di Remo Rapino

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Cronache dalle terre di Scarciafratta
di Remo Rapino
Minimum fax, 2021

pp. 208
€ 17 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)

Chi ha già letto Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, uscito due anni fa sempre per Minimum fax e insignito del Campiello 2020, sa che con Remo Rapino non si intraprende la lettura di un romanzo. Si accetta invece di scivolare in quello scorrere di pensieri che attraverso il monologo interiore porta a esiti tutt'altro che scontati, mimetici tanto del linguaggio quanto delle palpitazioni del cuore. L'apparente aggrovigliarsi dei pensieri e il loro muoversi nella pagina porta ad accettare che il ritmo della lettura e della narrazione lo decida l'autore, attraverso il suo narratore. O, in questo caso, i suoi narratori. 

Infatti, accanto al protagonista Mengo, arrivano le voci del paese di Scarciafratta, posticino inerpicato sull'Appennino abruzzese, ormai dimenticato e, forse proprio per questo, avvolto da un'atmosfera malinconica e al tempo stesso lirica. Si tratta di uno di quei luoghi abbandonati da tutti i suoi abitanti, meno uno: Mengo, all'anagrafe Ruscitti Domenico Giuseppe, nato nel 1887 a Scarciafratta e ricoverato dal 1968 in una casa di riposo di Villa Adriatica, dove morirà circa un anno dopo. Finché ha potuto, Mengo è restato a parlare da solo camminando lentamente per le strade della Rocca, dopo aver rinunciato a qualsiasi reale occupazione. Proprio in lui gli interrogativi sul deserto che ha attorno si sono affastellati, lui incredulo di quel che si vedeva attorno, o meglio del vuoto lasciato: 

La sua Rocca gli sembrò, per la prima volta, tutta vuota, e brutta, arida come una cava di calce. Strascinava passi per un deserto di erbe secche, di pietre cattive che ferivano scarpe e piedi. Ma dove erano andati? E quando era successo quello sfollamento, nu jame jame guagliò che manco nei giorni della guerra? Di notte? (p. 48)

Ben diverso era quando alla Rocca abitava la Rosina, che passava il tempo ad aspettare il ritorno del figlio, disperso in guerra; o quando Ninetta, simbolo della bellezza, faceva girare la testa a Mengo; o ancora, quando l'amico Pinuccio lo cercava o si affacciava sulla porta l'avaro "U' Pascià", o quando Bonaluce Artemisio rifletteva sulla poesia, che «serve a campà e basta» (p. 141),... Mengo, un po' come Bonfiglio dell'altro romanzo, è un sempliciotto, che ha scelto di non accettare le regole sociali, come quelle di un lavoro fisso; è sempre stato compatito dagli abitanti del paese, che attorno a un bicchiere di vino nell'osteria tutto sommato hanno accettato quell'«uomo con un'anima a parte» (p. 87), «sempre ai ferri corti con la vita» (p. 165), che non ha mai avuto paura di guardarla in faccia:

«[...] Mengo, pure a starci appresso con tutti i sentimenti, non ci capiva più di tanto e sempre più incompresa e confusa gli pareva la parola vita, così corta da dire, eppure così piena, che ce ne stavano dentro di cose, buone e cattive, rammemorazioni e scordanze, ché la vita, quella vera, va guardata a occhi aperti senza trucco e senza inganno, e lei ci guarda e ci canta negli occhi anche se facciamo finta di non vederla» (p. 46).

Se già in Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio Remo Rapino ha giocato con le parole e con l'efficace giustapposizione di termini dell'uso regionale, quando non ripescati dal dialetto, in queste Cronache dalle terre di Scarciafratta la sperimentazione si fa più ardita. Infatti, l'autore ci offre un'opera composita, inserendo, oltre alla narrazione principale, varie rifrazioni della storia attraverso testimonianze, documenti della casa di cura, documenti dell'anagrafe e altre tipologie di testi, che rendono particolarmente mossa la struttura. 

Le vere e proprie cronache delle anime, gestite in prima persona dai singoli individui, che riassumono la propria vita e colgono l'occasione per riflettere su temi apotropaici e per infilare qualche parere sugli altri compaesani (Mengo compreso), ricordano l'Antologia di Spoon River. Qui, tuttavia, non siamo in un cimitero su una collina, ma su una rocca arida, cosparsa di case abbandonate, e così le storie degli ex abitanti di Scarciafratta si riempiono di ruvida poesia scritta con mani screpolate. Lo stile di vita semplice e lo stato economico-sociale dei personaggi non devono mai trarci in inganno, perché sono le loro osservazioni a regalarci la poesia della verità, nascosta sotto una patina di ingenuità solo apparente

Dunque, leggete questo Cronache dalle terre di Scarciafratta più per la poesia che ci troverete che per cercarvi un romanzo tradizionale. Sono tante vite, tante storie, tante voci a cercare la loro libertà di esprimersi; se siete appagati da libri che lavorano sulla lingua, qui troverete al tempo stesso sperimentazione e omaggio al passato.

GMGhioni