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Tra coscienza civile e ricordi intimi: la "Lettera alla madre" di Edith Bruck

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Lettera alla madre
di Edith Bruck
La nave di Teseo, 2022

pp. 117
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

 
Questo scritto di Edith Bruck, edito per la prima volta nel 1988, è la lunga apostrofe di una figlia alla donna che è stata sua madre. Strappate l’una all’altra ad Auschwitz il 24 maggio del 1944, Edith sente che tra loro c’è qualcosa di irrisolto, di sospeso. Nelle orecchie le risuona ancora l’invito all’obbedienza con cui la madre la consegnava al soldato delle SS, allontanandola dalla morte a cui lei invece veniva diretta nel momento della selezione. La consapevolezza di essere viva grazie a questo attraversa gli anni, segna lo spirito: Edith c’è ancora perché ha obbedito, perché si è resa invisibile, perché la madre è morta per prima e non l’ha obbligata a soffrire nel momento in cui era fondamentale non sentire nulla: “noi viviamo perché tu non eri con noi come altri madri sacre ad Auschwitz. Veder morire una madre nei lager era un attimo di lutto per tutti, vederla esistere, vivere, ci induceva a un attimo di rispetto, ci rammentava che siamo figlie, siamo nate umane” (p. 18), ma questo nel campo di sterminio può essere fatale. Non c’è tempo per piangere, ad Auschwitz: bisogna sorvegliare la propria vita, tenersela ben stretta, e certo non c’è tempo per rimpiangere le madri. Solo dopo, di fronte al vuoto, si può constatare cosa si è perso.
Quello che emerge dalla lettera di Bruck è un procedere disordinato del pensiero per preciso intento programmatico, dichiarato fin da subito. Lo scopo è dire tutto, dire la verità, conoscersi attraverso la parola che è per la scrittrice istanza quasi religiosa. 
Ho bisogno proprio di te, per non mentire, non tradire, essere me stessa anche se non ti piaccio o non mi piaccio. Noi ci siamo scelte, per caso siamo madre e figlia, e poiché tu eri mia madre io ti ho amato e ti amerò. (p. 12)
All’interno del testo la madre si fa presenza interrogante, coscienza che pungola e richiama all’ordine, voce di un’altra possibile visione dell’esistere. Quella che la oppone alla figlia in una continua dialettica è una diversità irriducibile, che coinvolge tutti i modi dell’essere, a partire dalla fede: assoluta, integrale, quella della madre (“ne avevi da vendere, io non ne ho neppure per me”, p. 11); personale e declinata in senso civile quella della figlia (“Io non gioco con la fede, io credo, mamma. No, […] non nella preghiera, nella candela accesa di venerdì e nel digiuno di Yom Kippur. Io credo nell’onestà della mia coscienza civile”, p. 87). Se la madre era rigida, attaccata alle tradizioni, la figlia era uno spirito libero, ostinatamente ribelle. Il loro era un rapporto conflittuale, sempre teso in una reciproca incomprensione, che si fa radicale nel momento dell’esplosione della barbarie: “Mentre l’Europa bruciava, e noi con l’Europa, […] tu attendevi il miracolo” (p. 24).
Il dialogo sempre mancato viene recuperato ora, attraverso una voce che si sdoppia, che cerca un riavvicinamento impossibile. Perché la pacificazione con il fantasma della figura materna è per l’autrice un modo per fare i conti con le proprie scelte: “se mi dimentico di te mi dimentico di me” (p. 60), conclude a un tratto Edith. Ecco perché è così urgente la scrittura, la testimonianza: “senza la poesia, senza l’arte la natura, la vita sarebbero insopportabili, l’aria irrespirabile. Tu non sai quanta verità può contenere un solo verso, una sola parola” (p. 35).
Forse proprio la perdita di questa parola, la convinzione di non poter più scrivere, è ragione della resa dell’altra grande presenza fantasmatica che riempie il volume, quella di Primo Levi, da poco morto suicida. L’autrice non si capacita del gesto del suo caro amico e ne sonda le profondità, proprio mentre si interroga sul senso della Memoria, su un presente che non ha imparato niente da Auschwitz, sulla Terra Promessa che ha perso la sua dimensione ideale sprofondando nelle sue stesse contraddizioni. Emerge forte la rivendicazione di un ricordo da tramandare, per salvarlo dal silenzio che tutto inghiotte, da chi vorrebbe negarlo anche contro l’evidenza:
“Auschwitz…” lo pronunci piano come fosse il nome proibito di Dio, il luogo più sacro, più impronunciabile del mondo. Invece dovrebbero impararlo tutti. Ci dovrebbe essere una scuola obbligatoria per insegnarlo. (p. 108)
Ma Lettera alla madre non è solo il luogo della coscienza civile, dell’impegno del sopravvissuto di fronte al presente, è anche quello del recupero di un passato intimo e personale.
Il ritorno al paese natio, in occasione della realizzazione di un film sulla sua vita, scatena in Bruck le intermittenze della memoria: ecco 
il bosco misterioso e pauroso dove avevo raccolto i primi fiori per te, dove avevo giocato a nascondino, a mamma e papà, dove le viuzze erano fangose, le case bianche col tetto rosso, le donne portano il nero, gli uomini stracci scuri e tutti sapevano di marmellata, di fieno, di stalla, di fiori di lillà. (p. 64) 
Non basta il tempo trascorso a mitizzare un’infanzia povera, costellata dai richiami della madre, spesso rigida e delusa, soprattutto dalle intemperanze del marito e dell’ultimogenita. Eppure Edith reclama questa infanzia nella sua dignità semplice, rifiuta ogni vergogna.
Nella sua voce adulta si sente l’eco di un bisogno d’amore mai saziato. Continuamente viene rinfacciata alla madre la mancanza di manifestazioni d’affetto esplicite (baci, abbracci, carezze), anche se non viene mai messo in discussione il sentimento, reciproco, pur se sempre difficile, battagliero, che le lega indissolubilmente. La lettera è un tentativo estremo, fuori dal tempo, di superare il crepaccio che le ha divise, di gettare un ponte cercando finalmente un linguaggio condiviso. Lettera alla madre rivela un pensiero non ancora compiuto, non ancora risolto. Non c’è alla base quella visione rielaborata, a posteriori, che si percepisce nel più maturo Il pane perduto (recensito qui). Qui è più forte la necessità di esprimersi, di portare tutto alla luce, di riversare fuori da sé quanto ancora non è stato detto. E la parola diventa allora la nicchia in cui è possibile auspicare un nuovo, risolutivo incontro.
 
Carolina Pernigo