Storia delle mie ossa
di Francesco Leto
Mondadori, gennaio 2022
pp. 168
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Non c'è morale né favola in questa mia storia, circostanza che rende, per parte mia, tutto più arricciolato e bizantino nonostante non mi difetti l'estrema franchezza. Tuttavia non intendo essere d'insegnamento a nessuno, men che meno disvelare alcuna verità. (p. 9)
Mette le mani avanti il narratore di questa storia, della sua biografia dai toni favolistici. Figlio di una coppia italo-francese, vissuto in una città senza nome, circondato da vicini che sembrano uscire dalle pagine di vecchie novelle, viaggiatore, inseguitore di amori senza sbocco e che ha trovato la sua vera casa in una panchina a Villemanzy a Parigi. Una biografia con una "orditura tutta sbrendoli" che sembra sempre sul punto di incominciare, nell'attesa di un qualche grande evento quando ci si accorge che, a voler analizzare nel dettaglio e prestando attenzione alla propria intimità, ogni vita è degna di un romanzo e di una narrazione dai tratti iperbolici.
È una biografia finzionale e un romanzo di formazione Storia delle mie ossa di Francesco Leto. Ci si ritrova all'interno l'eco di grandi classici della letteratura mondiale: dal rivolgersi direttamente al lettore per coinvolgerli nelle proprie riflessioni, come faceva Tristan Shandy e al suo andare in profondità su ogni minuzia delle persone che lo circondavano nel tentativo di renderle pungenti e canzonatorie, fino all'estrema autocentratura e, a tratti, autocommiserazione adolescenziale di figure come Holden Caulfield. È una biografia in cui riuscire a trovare agganci concreti che riescano a direzionare il corso degli eventi non è un'operazione semplice anche perché si viene piacevolmente distratti dalla scelta degli elementi di stile che mescolano costrutti barocchi e favolistici, riferimenti classici ben integrati nel tessuto contemporaneo, e alternanza con elementi dialettali e scelte fonetiche insolite – su tutte talvolta l'uso degli articoli davanti ai nomi propri e la totale mancanza di -d eufoniche anche quando necessarie.
Quasi nessuno dei personaggi è dotato di nome proprio, ma di soprannomi parlanti che sembrano venire dal mondo delle favole. Così, la madre viene definita sempre la Rossa; la vicina di casa dal carattere inflessibile è la Pungolatrice e sua sorella con la quale ha un pessimo rapporto viene chiamata la Sorella Rivale; l'interesse amoroso del narratore è Lui. E così la Sarta e il Vigile girano in questo mondo che intuiamo essere contemporaneo solo da alcuni elementi come il fatto che il padre e la Rossa si siano innamorati mentre lui la aiutava a liberarsi di un vecchio televisore buttandolo nel Tevere o dalla presenza di cantanti come Miley Cyrus o dai social contemporanei. Una contemporaneità che si fonde molto bene con il mondo classico quando ci troviamo di fronte a Euridice, la figlia della Pungolatrice, o quando la Rossa
Era abbattuta dal caldo e ripeteva che Caronte, mon Dieu, ci avrebbe uccisi tutti. (p. 56)
sposa bene la terminologia classica riferendosi alla moda di dare nomi classici alle ondate di calore che ci investono ormai da oltre dieci anni.
È una vita straordinariamente normale quella del nostro narratore.
Io, tanto per parlare di uno a caso che conosco bene, sono un rifugiato sentimentale e a me è andata fin troppo bene, visto che ho sempre potuto cavarmi la sete e la fame senza troppi intoppi e non ho dovuto attraversare mari tempestosi e monti troppo scoscesi per trovarmi dove mi trovo. Non intendo fare troppe manfrine: io ho avuto fortuna. (p. 85)
Quasi si giustifica mentre racconta delle sventure e le opportunità che si presentano a un appartenente alla media borghesia: gli studi, i molti viaggi che si tingono di incidenti grotteschi quasi a fare il verso ai Grand Tour offerti ai giovani di buona famiglia, un presente lavorativo precario fatto di lezioni di italiano offerte in Francia e un'attività come scrittore. Chi circonda il nostro ha le sue manie e vengono descritte in maniera acuta. Il desiderio di apparenza della Rossa che si spinge fino al mercato nero pur di ottenere una pelliccia di cui poi si stufa subito e fa modificare talmente tante volte da renderla poi una semplice coperta è pungente nello scoprire la debolezza di carattere della madre. La tirchieria della Pungolatrice che gestisce un bazar fuori dal tempo e che non riordina i gelati fino a che non ha esaurito i ghiaccioli alla menta vecchi di chissà quanti anni ricorda le cattive venditrici di caramelle di Dahl.
Sono molti i riferimenti e i ricordi alti di questo testo in cui davvero seguiamo una vita senza grosse particolarità ma con i dettagli sviscerati fino all'osso. Non è solo un facile gioco di parole in riferimento al titolo – in cui poi il sistema d'immagini giocato sulle ossa è a volte quasi troppo smaccato – ma è il fulcro del romanzo ovvero la ricerca di ogni singolo dettaglio che possa fornirci informazioni su come ci siamo formati e a cosa dobbiamo la nostra vita e, portato a un livello più alto, a quanto la nostra dettagliata memoria singola sia un tassello della più ampia memoria storica.
Come ogni romanzo di formazione è un testo egocentrico: se si usa l'espressione "guardarsi l'ombelico" per riferirsi all'autocentratura, qui stiamo osservando sotto la pelle e fin dentro il midollo, attorcigliandoci in alcuni passaggi quasi da diario segreto. La costruzione per nulla lineare, il rivolgersi al lettore e ogni tanto il lanciare una sorta di captatio benevolentiae scusandosi per una storia che continua a inciampare e sembra non partire non aiuta nella lettura né ha sapore particolarmente sperimentale. È un testo di maniera: la maniera di una generazione e di una classe sociale che ha avuto fortuna, un buon grado di agevolazioni e di cultura e sembra sentirsi in colpa per questo tanto da dover arzigogolare e favoleggiare su quello che il normale corso degli eventi dalla culla in poi. Forse è per questo che il narratore ci avvisa che questo romanzo racconta, molto più di quanto possiamo immaginare, anche la nostra storia oltre che alla sua.
Giulia Pretta