In nome del Reich.
Indegni di esistere
di Helga Schneider
Oligo, 2022
pp. 190
€ 16,90 (cartaceo)
Tra le molte barbarie che si possono ascrivere al regime nazista,
una di quelle forse meno conosciute è legata al suo programma segreto di
eutanasia, celato sotto il nome in codice di “Aktion T4” e finalizzato a
eliminare quei soggetti considerati
imperfetti, e come tali indegni di vivere. Ricaddero in questa categoria,
tra gli altri, i pazienti delle strutture psichiatriche, ma anche tutti i
bambini nati con malformazioni, malattie genetiche, o con la sindrome di Down.
Erano le famiglie stesse a segnalarli alle autorità competenti, convinti da
false promesse che i piccoli potessero essere curati in strutture
specializzate, dove invece venivano eliminati senza alcuna pietà, spesso
ricorrendo a sovradosaggi di farmaci tossici. Proprio da questo fenomeno, quasi indicibile nell’orrore che implica e suscita, trae spunto il
romanzo di Helga Schneider, ispirato a una storia vera da lei ascoltata
direttamente dalla protagonista e poi rielaborata in forma narrativa.
L’obiettivo è la denuncia,
condotta in toni schietti, senza mediazioni, per meglio rivelare le ipocrisie e
le contraddizioni del governo di Hitler:
il programma di eutanasia costò la vita a settantamila persone, nel Terzo Reich e nei paesi annessi. […] Paradossalmente, però, la Germania nazista aveva promulgato una severa legge contro la vivisezione e l’uccisione delle specie animali protette. (p. 13)
Le vicende sono narrate in prima persona da Grete. Ci troviamo nel 1997 e la
donna sta per festeggiare i suoi ottant’anni insieme al marito Rudi, amatissimo
e premuroso. Sembra lontano, per quanto a tratti si ripresenti bruscamente alla
memoria, il tempo in cui entrambi hanno militato
nella Resistenza, contro un governo in cui era sempre più difficile
riconoscersi. Eppure, solo fino a poco prima, Grete era stata figlia di un
nazista convinto e moglie di un membro delle SS, il ricco Gregor von Wittig,
prototipo del perfetto ariano, apprezzato dal Führer stesso.
Quella di Schneider è una
narrazione che procede a ritroso, sempre più vicina al cuore pulsante
dell’orrore. La scelta dell’autrice è intelligente, perché conduce poco
alla volta a qualcosa che risulta inaccettabile al pensiero, e che quando alla
fine viene messo nero su bianco scortica,
espone la carne viva.
Nella prima parte del romanzo, troviamo il matrimonio tra Grete e
Gregor già in crisi. Lei non riesce a perdonarlo per ciò che di terribile lui
ha fatto: per aver accettato, anzi caldeggiato, il ricovero del loro neonato in
un ospedale speciale da cui non è più uscito. Per Gregor, la morte del bambino
è la liberazione da un peso, da una possibile ignominia, il “gesto compassionevole del […] governo,
concesso a una madre che ha messo al mondo un essere difettoso” (p. 46).
Grete, che ha potuto essere madre solo per pochi giorni, ha invece il coraggio di chiamare assassinio quel che
è stato, violando la tacita legge che obbliga all’eufemismo, le regole
della neolingua che riconduce tutto alla grandezza del regime e censura ogni
aspetto di brutalità. La sua posizione non è tuttavia tollerabile: la moglie di
un nazista deve essere mite e arrendevole, generare figli perfetti, sopportare
con forza le avversità, non cedere al disfattismo, sottomettersi docilmente
alle volontà dell’uomo. Ecco allora che la rivolta interiore della protagonista
viene letta come inammissibile
insubordinazione, problema che deve essere estirpato. La soluzione è a
portata di mano, per chi conosce il trattamento riservato da Hitler alle
patologie mentali: è facile accusare una donna di avere una crisi di nervi,
fare una telefonata, riscuotere un favore…
Grete si trova quindi ricoverata proprio in una struttura di
transito per pazienti sottoposti al programma di eutanasia nazista. La
costruzione dell’intreccio fa sì che il lettore conosca già la sorte della
protagonista, ma questo non attenua che in minima parte la tensione e gli
interrogativi su come lei possa cavarsela.
Nella seconda parte del romanzo, con un ulteriore salto
cronologico si torna al 1939, l’anno in cui è iniziata la rovina di Grete,
l’anno in cui, dattilografa provetta nel carcere interno della Gestapo, ha
attirato l’attenzione del bel Gregor von Wittig. La storia del loro matrimonio
e del concepimento del piccolo Adolf sembrerebbe ideale, perfettamente conforme
alle aspettative di tutti (le loro, ma anche quelle delle loro famiglie e del
governo). Purtroppo, nel momento della nascita del bambino qualcosa va storto:
Guardai la bella figura slanciata di mio marito, un ariano perfetto che si era scelto una sposa perfetta con la quale aveva concepito un bambino imperfetto. Che cos’era? Una beffa del destino? Un monito per punire la presunzione umana? (p. 154)
Il distacco dal neonato e la progressiva presa di coscienza di quel che gli sta
capitando produce un radicale
scollamento tra le ragioni del cuore e quelle di Stato. Per Grete la
consapevolezza di come il regime esercita la sua “compassione” sui deboli ha un
impatto deflagrante. Da madre, le risulta insopportabile quel che prima aveva
accettato con pochi tentennamenti. E la visita all’istituto Görden è terribile
per lei quanto per il lettore, che vede attraverso i suoi occhi.
In nome del Reich è un romanzo che vuole mettere
di fronte agli abissi in cui può sprofondare l’essere umano. Per questo viene
enfatizzato il contrasto tra i nazisti irredenti, tanto infarciti di ideologia
da non riconoscere più la brutalità, da vivere in nome di un’etica distorta ad arte, e lo sguardo di chi invece percepisce lo scarto tra i valori diffusi dalla
propaganda e la realtà. Grazie a una costruzione ben calibrata, e a uno
stile asciutto, il tema viene trattato senza retorica e risulta pertanto ancora
più sconvolgente alla lettura. L’autrice de Il
rogo di Berlino si conferma in questa prova di scrittura per la lucidità
con cui legge i movimenti storici, e per l’empatia con cui affronta il dolore
delle vittime.
Carolina Pernigo