di Karina Urbach
Mondadori, gennaio 2021
Traduzione di Silvia Albesano
pp. 372
€19,00 (cartaceo)
€10,99 (ebook)
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«Ti prego di eliminare dalle tue lettere ogni sentimentalismo. È del tutto inutile che tu le infarcisca con quella melassa.» (p. 125)
Quando un romanzo si svolge in tempi bui, narrando storie avvenute durante le peggiori pagine della storia umana, è semplice e anche comprensibile che la scrittura sia rotta dall’emozione. Il carico tragico di eventi come l’Olocausto si è spesso tradotto in opere commoventi, che narrano al lettore lo smarrimento e la disperazione di coloro che da un momento all’altro hanno perso tutto.
Quando al termine della lettura di Il libro di ricette di Alice mi sono accorta di essermi commossa, ho pensato che questo romanzo è molto diverso da tutti gli altri che ho letto sull’argomento. La frase che ho riportato in apertura, presa da una lettera di uno dei protagonisti di questa straordinaria storia vera, è citata dall’autrice in sede di prefazione per dichiarare i suoi intenti: «questo libro cercherà di fare a meno della melassa», scrive Karina Urbach. Ne viene fuori un’opera in cui gli eventi si autosostengono, materializzandosi sulla scena in tutta la loro tragicità ma asciutti, svuotati di ogni sentimentalismo. L’autrice, nipote della protagonista del libro Alice Urbach, presenta dei personaggi che avanzano con sobrietà e compostezza, lasciando parlare le lettere e i documenti riportati senza ricamarci intorno. L’impatto sul lettore è straordinario, e al termine del romanzo l’impressione è quella di aver letto una delle ricostruzioni più vere e sincere del destino di una normale famiglia ebrea in tempi di guerra.
La storia vera di Alice Urbach comincia a Vienna, dove sposa un uomo che muore prematuramente dal quale ha due figli, Otto e Karl. Negli anni ‘20 Alice si accorge che la sua passione per la cucina può trasformarsi in un lavoro, e apre una piccola scuola di cucina che nel tempo raccoglie sempre più partecipanti di ogni strato sociale. Il carattere gioviale e amichevole di Alice e il passaparola delle clienti fanno il resto: la richiesta cresce e per le giovani ragazze di Vienna la scuola di Alice diventa quasi una tappa obbligata. Alice inizia a pubblicare libri di cucina che riscuotono un notevole successo, qualificandosi come veri e propri best-seller. Nel frattempo, nel 1935 il figlio maggiore Otto va a studiare al Reed College di Portland.
I tempi sono bui e presto arrivano le difficoltà per la famiglia Urbach. Nel 1937 Otto non riesce a risolvere i problemi con il permesso di soggiorno in America e decide di andare a Shanghai per qualche tempo, dove è più semplice trovare accoglienza. Si ritrova suo malgrado testimone degli orrori della guerra sino-giapponese e riesce a tornare in America solo diversi mesi dopo rispetto alla data programmata, mentre la situazione si fa minacciosa anche a Vienna. Nel marzo 1938 l’Austria viene annessa al Reich tedesco e nel giro di poco tempo tutto cambia. Per gli ebrei comincia la caccia al timbro giusto sul documento giusto: per l’America serve il cosiddetto affidavit, ma Otto non dispone ancora di una posizione tanto solida da poter garantire per la famiglia davanti alle autorità statunitensi.
Questa parte del libro, in cui si affrontano le difficoltà di emigrazione per gli ebrei (il mondo sembra diviso in «paesi in cui gli ebrei non possono vivere, e paesi in cui non possono emigrare», p. 126), è a mio parere la più significativa. Attraverso le lettere di Otto, Alice e Karl viviamo la paura e l’attesa snervante che devono aver provato tanti ebrei austriaci. Nella famiglia Urbach, così come in tante famiglie ebree, qualcuno riesce a emigrare, qualcuno no. Alcuni si salvano per un soffio, per altri pochi giorni sono decisivi per la deportazione.
Alice visse ancora a lungo. Dopo la guerra, scoprì che il suo libro di cucina ha subito il destino di tanti libri di persone come lei: è stato oggetto di arianizzazione, il che significa che è stato attribuito a un altro autore non ebreo. Quel libro perduto diventa, per lei, «il simbolo di tutte le ingiustizie e le umiliazioni degli ultimi anni» (p. 267). Per tutta la sua lunga vita questa donna combatté per riappropriarsi di ciò che le spettava di diritto, ma non ottenne mai la ripubblicazione del suo libro sotto il suo nome. Non quando era in vita. Quasi quarant’anni dopo la sua morte, quando la sua storia divenne di dominio pubblico, la casa editrice Ernst Reinhardt si scusò, ristampò nuovamente l’edizione del 1935 e Alice tornò a essere l’autrice del suo best-seller So kocht man in Wien!.
Questo libro è speciale non solo perché tratta un tema di cui si sa ancora relativamente poco, ossia l’arianizzazione dei libri sotto il nazismo. Lo è perché restituisce la storia di una famiglia senza abbellimenti, senza mostrarla come qualcosa di speciale ma esclusivamente per ciò che è: una voce in mezzo a tante. Eppure queste voci sono necessarie: lo sono le foto, le lettere e i documenti contenuti in questo libro, la loro concretezza, la loro efficacia nel ricordarci che dietro le grandi tragedie ci sono corpi e visi, documenti e firme che possono salvare una vita. Dietro la minacciosa parola Olocausto non c’è solo la generica disgrazia degli ebrei, non ci sono solo i grandi e terribili numeri, né la vergogna degli stermini di massa rispetto ai quali ciascuno di noi prova indignazione, ma senza riuscire ad afferrarne la portata fino in fondo. E forse non ci riusciremo mai, perché non lo abbiamo vissuto. Ma testimonianze come questa, in cui si parla di affidavit, visti e attese infinite, piuttosto che di dolore, angoscia e disperazione, credo che aiutino a illuminare il passato e a costruire un ponte, per quanto instabile e precario, fra noi e le vittime degli orrori del nazismo.
Alessia Martoni
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