in

La parabola discendente: ciò che lanci in alto, poi cade. "La meccanica del divano" di Francesco Dezio

- -
la meccanica del divano



La meccanica del divano
di Francesco Dezio
Ensemble, ottobre 2021

pp. 288
€ 15,00

Acquista su IBS

«Perché qui dove sono è tutto fermo» (p. 19), dice quel frusculicchio di Nuccio, un quindicenne con la voglia di scappare a Nord e lasciare per sempre Infernominore, nel Sud, paesino immaginario della Puglia collocabile più o meno nelle Murge, che «lo ha figliato e fottuto a sangue senza altra possibilità di scegliere» (p. 19), e suo padre, che agli angoli della bocca tiene aggrappati "fatica, lavoro e reputazione". Ma nemmeno il tempo di pensare alle nuove opportunità e libertà sfavillanti del nord, che i panzerotti e il pandispagna con la crema di mamma richiamano: "Nuccio, a tavola!".
Questo l’incipit di una disgrazia già annunciata, dove Francesco Dezio sistema tutti gli ingranaggi di La meccanica del divano come fossero parte, talvolta, di una tragedia greca, altre di una commedia antica, altre ancora di un dramma satiresco; laddove prologo, parodo, episodi, stasimi e esodo divengono struttura, legno massello, molleggio, imbottitura e tessuto.

Quello di Dezio è un romanzo assai singolare. Già autore di Nicola Rubino è entrato in fabbrica (Prima ed. Feltrinelli, 2004 - Seconda ed. Terrarossa, 2017) - ascrivibile alla nuova narrativa industriale italiana del XXI secolo - e La gente per bene (Terrarossa, 2018), l’autore continua la via crucis del lavoro operaio e imprenditoriale, fatta di dossi e deviazioni poco misericordiose, dove nessun angelo musicante accompagna i fedeli lavoratori verso il Dio onnipotente. Piuttosto, La meccanica del divano è un percorso torto, che si estende, come il serpente tentatore, dal 1985 al 2021, calpestato da Nuccio, Michele e Myriam, che non hanno altro che il sogno del grande avvenire. O meglio, che rincorrono affannati e con reale sacrificio il “sogno pugliese”, che non ha nulla a che fare con quello americano del grande Gatsby.

Natalino Manucci: ecco “il nome” a cui tendere, ecco il dio da pregare, ecco l’indiscusso produttore di divani migliori delle Murge! È all'imprenditore che bisogna volgere lo sguardo, non più alla processione di paese e ai «vescovo + sindaco + bambini provvisti di alucce + fiori + la Madonna svettante tra le luminarie + noi sfilanti» (p. 32).

È tempo di dimostrare di “tenere” le giuste competenze: «conosce vita mortemmiracoli d’ogni fase di lavorazione di un divano. Si adatta. E se lo strigli ti rende, così dicono tutti. Non è uno che fa la conta dei minuti per scìrsene. È uno che, come tutti, qua, pur di spigolare qualche soldo in più mai si sottrarrebbe allo straordinario, mai» (p. 41).
A parlare è un gruppo di corèuti, i prototipisti, che insieme ad altri membri del coro (i capallegra, le influencer, le dolenti, i ceo, gli spin doctor) camminano e insieme commentano ciò che avviene ai protagonisti. Tuttavia, i corèuti sono guidati dal corifèo, il capo di tutti i cori, che con autorevolezza indiscussa dialoga direttamente con i personaggi. In La meccanica del divano sono molte le voci che provano a dominare le vite illuse e disilluse di operai e imprenditori, tra cui La stampa avversa, La rivista di tendenza, La cam, La vammana (la levatrice) nonché l’autore stesso. Ma solo una è la voce dominante, il corifèo dei meccanismi economici: Il Mercato.
«Lasciatevi invadere, sarete i miei miliziani del progresso. Dove andate? Non potete fuscìre! Con me dovete stare! V’avverto, posso indurre disturbi del comportamento, inappetenza, perdita di conoscenza, sintomi di esofagite e stipsi se tentate di ignorarmi». [...] «Quand’anche ve la deste a gambe io vi acchiapperei subito. Io vi abito. Vi condiziono» (p. 61).   
Le parole tonanti del pantocratore delle contrattazioni hanno sottoposto alla concia le vite Made in Italy dei tre protagonisti, inclusa quella del dio dei divani Manucci, che per trentasei anni hanno continuato a calpestare quel sentiero fatto di successi, insuccessi, fallimenti e corruzioni, tutti con il fine di raggiungere un’unica meta: fama, ricchezza e soprattutto riscatto. Sì, perché per un o una giovane proveniente da un paese di provincia del sud è fondamentale riscattarsi da un territorio dove conta solo la reputazione, l’onore, “la buona famiglia alle spalle” e l’essere un “grande lavoratore” (per le donne, fino a qualche tempo fa, il lavoro era quasi un peccato originale). Lo stesso Nuccio, a cui il lettore ‘un po’ ci vuole bene’, pur di affrancarsi da Infernominore, impara alla perfezione l’arte dei divani e pure a parlare bene l’italiano, e Francesco Dezio, prima come prototipista, e poi come sarto e modellista, leviga quel dialetto pugliese tutto spontaneità in una lingua controllata e comprensibile, altrimenti come fai a passare «da una fase artigianale a una industriale» (p. 74). Tutto necessita di standardizzazione, perché «l’obiettivo strategico è rendere più democratico il lusso» (p. 162), altrimenti sei fuori.
«Ma tu quello eri, e quelli erano i divani che producevi allora, quando ti vantavi di essere – con piglio cosmopolita – un local artisan. Pacchiani, pachidermici, sformati, dalle bombature assurde, tutta funzionalità e colori di merda, nel senso che la tonalità prevalente era esattamente quella. E non era nemmeno pellame di primo fiore. E certo: zero design» (p.154).
Quello di Francesco Dezio è un libro assai singolare per il suo essere tutto: così limpido, vero e spassoso, ma allo stesso tempo controvertibile e al limite del cliché meridionale. (D’altronde gli stereotipi sono da sempre fonti succulenti di ilarità e umorismo, come farne a meno!)
Tuttavia, nella mia Puglia, quei Nuccio, Michele e Myriam li conosco per davvero. Persone che si convincono di potercela fare e di sbarcare il lunario, anche a costo delle critiche feroci delle bocche avide di provincialismo. Non importa cosa li aspetterà, loro ce la mettono tutta, sacrificando qualsiasi cosa o quasi, e affrontando il Mercato sempre in corsa e mai affannato. Eppure, di quella luna non ne rimane mai che una misera fettina, e alla fine non resta che ricominciare. Di nuovo, e ancora.

Olga Brandonisio