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Luce e oscurità, vita e morte: "La vita degli animali", un romanzo stratificato e denso di spunti

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La vita degli animali
di Audur Ava Ólafsdóttir
Einaudi, novembre 2021

Traduzione di Stefano Rosatti

pp. 220
€ 17,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Si dice che l’uomo non si riprenda mai dal fatto di essere nato. Che l’esperienza più difficile della vita sia questa, venire al mondo. E che la cosa più difficile sia abituarsi alla luce. (p. 88)
Tra le ultime letture del mio 2021 è capitato un libro che ben si adattava alle atmosfere fredde di dicembre e che, alla fine, si è rivelato molto particolare, difficile da etichettare, affascinante e straniante al tempo stesso. La vita degli animali, tradotto da Stefano Rosatti, è l’ultimo romanzo di una delle più influenti scrittrici islandesi contemporanee, Audur Ava Ólafsdóttir, della quale in Italia sono già apparsi per Einaudi vari titoli, da ultimo l’interessante Miss Islanda. È questo un testo sorprendente, che riprende molti dei temi e delle riflessioni care all’autrice e si discosta dalle narrazioni tradizionali mediante una trama non solo frammentata ed evanescente ma anche per la stratificazione che lo caratterizza. Un meccanismo narrativo che non sempre funziona e che a tratti risulta anche qui un po’ straniante, ma quando gli elementi si incastrano fra loro l’effetto è molto interessante.
A pochi giorni dal Natale, in un villaggio islandese, sta per abbattersi una violenta tempesta, in un luogo in cui le condizioni di vita sono già normalmente piuttosto difficili ma a cui gli abitanti paiono non fare caso più di tanto, abituati al clima rigido, l’oscurità, l’isolamento. E le vite delle persone seguono il corso naturale delle cose, un quotidiano di lavoro, nascite, morti, ricordi da costruire. 

Nascita e morte sono due poli intorno a cui ruota da sempre l’esistenza della protagonista, Dyja, figlia di due impresari delle pompe funebri ed erede di una lunga tradizione di donne che scelgono il mestiere di ostetrica. Come l’amata zia Fífa, recentemente scomparsa, che le ha lasciato la vecchia casa e tutto il suo contenuto, fra cui uno scatolone con tre voluminosi manoscritti densi di riflessioni, interviste, domande, sulla natura umana e sugli animali. È tutta qui, in fondo, la trama essenziale di questo romanzo, la storia di una donna fatta di tanti episodi, taluni minimi altri fondamentali, delle persone che incontra, dei legami famigliari, delle considerazioni intorno a un mestiere che è da sempre molto di più. Ma dentro a questi fatti esigui c’è un abisso, una stratificazione di piani narrativi, tematiche e spunti che forse non cattureranno i lettori abituati a un impianto narrativo più tradizionale ma di certo compongono una storia interessante che mette in dialogo autore e lettore per mezzo delle numerose domande e riflessioni che la lettura porta con sé.
Sono quei frammenti stessi della vita della zia che la protagonista tenta di rimettere insieme, di dargli un senso, leggendo lei per comprendere meglio se stessa, le proprie scelte, la casualità della vita stessa, ma da cui più che delle risposte paiono sorgere nuove domande, che non sempre troveranno risposta. E qui, a mio avviso, sta la forza del libro e, a tratti la sua stessa debolezza, in quella miriade di domande, spunti, che fuoriescono dalla pagina per arrivare al lettore.
- Credo stia cercando di comprendere l’essere umano, - ho detto a mia sorella. 
- Comprendere come? - La sua impotenza (p. 89)
Un testo, si diceva, fatto anche di forti dualismi: luce e oscurità, vita e morte. Attraversano la storia, le esistenze di Dyja e di Fífa, sono parte dell’esperienza umana tutta. La nascita, la morte, il parto e la luce, le microstorie che intessono il ricamo del racconto con il loro quotidiano di amore e perdita, solitudini profonde e affetti. Il parto, naturalmente, è il centro nevralgico intorno cui tutto ruota, la propria nascita come «l’esperienza più difficile della vita» e un insieme complesso di sentimenti, conseguenze, legami che via via si delineano, di scelte. La scelta, appunto, di essere ostetrica, una parola che in islandese contiene “madre” e “luce”, farsi carico delle domande che si intrecciano all’atto della nascita, partecipare alla gioia o al dolore. 
Dyja, che per allontanarsi dall’ombra di morte che aleggia da sempre nella sua casa sceglie la luce del parto:
A pensarci bene, credo di aver cercato di fuggire l’atmosfera di morte incombente e ineluttabile che aleggiava sulla casa di Bólstaoarhlío. Che cosa sarebbe successo se la volta dopo fosse toccato a me o a mia sorella? Per quanti giorni e quante notti mia madre si sarebbe chiusa in camera, con la coperta tirata fin sopra la testa? (p. 29)
Aleggia qui e là nel testo il fantasma della depressione, anche legata alle difficoltà del post partum: ancora una volta la penna dell’autrice si fa lieve, i contorni sfuocati, e siamo noi lettori a colmare gli spazi vuoti. Insegna l'arte del racconto che le storie sono composte di una parte emersa che è impressa sulla pagina e una sommersa, nei casi più fortunati ancor più complessa e importante: come nella short story, anche in questo romanzo – eppure adesso, alla fine di queste riflessioni l’etichetta mi pare sempre meno calzante – la parte sommersa nasconde abissi e molteplici possibilità di riflessione e significati.
Stratificato, è la parola che ho usato in più di un’occorrenza, perché arrivata in fondo mi sono resa conto che la storia, le riflessioni, di Dyja sono quelle della cara prozia, ma sono anche quelle della scrittrice stessa, che si interroga sulla frammentarietà del racconto, sulle logiche editoriali, sui misteri della scrittura. E, soprattutto, sul mistero dell’uomo. Perché dentro quei manoscritti, intrecciate alle riflessioni sul cambiamento climatico, il «benessere» degli animali, le storie delle antenate ostetriche, c’è sempre quella domanda che ci accompagna: perché l’uomo nasce? Indagare la sua natura è stata la missione di Fífa, il testimone che raccoglie la nipote, un interrogativo che ben conosciamo anche noi. 
C’è poi, infine, un ulteriore strato, forse più superficiale, con cui leggere questa storia e sta nella vita di Dyja, nei suoi dolori passati, nelle domande che si pone, nella casa che sceglie come rifugio; è l’idea di una storia che in qualche modo voglia anche raccontarci della fatica di trovare noi stessi, della casualità che pare muovere la vita tutta a partire dalla nascita, nella costruzione assolutamente personale della propria idea di felicità.
Ho detto molto, forse non ho detto abbastanza.

Di Debora Lambruschini