Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo
di Donatella
Di Cesare
Bollati
Boringhieri, 2022
p. 160
€ 12,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
In prossimità della Giornata
della Memoria, esce in un’edizione aggiornata e ampliata un saggio di Donatella
Di Cesare che esplora i temi dell’antisemitismo nel XXI secolo e delle
principali correnti negazioniste, che vi sono strettamente connesse. Si avverte
forte, fin da subito, il desiderio di trattare il negazionismo non solo, o non
tanto, come un fenomeno storiografico, ma come un fenomeno primariamente politico.
Nonostante chi sostiene
questa posizione spesso la ponga come una forma di revisionismo della storia
passata, finalizzata a ottenere maggiore chiarezza, la studiosa ribadisce a più
riprese come sia qualcosa di ben peggiore. I negazionisti non vogliono conoscere la verità, la vogliono cancellare,
rimuovere, addirittura riscrivere. Non sono aperti all’ascolto, ma anzi
procedono a una sistematica opera di destrutturazione e rimozione di ogni
testimonianza. Proprio perché intuiscono l’importanza del superstite, nella cui
“voce riecheggiano le urla dei sommersi”
(p. 20) e rimane traccia di ciò che non deve essere dimenticato, i testimoni devono essere messi a tacere,
attaccati direttamente; se ne deve mettere in dubbio la credibilità.
Quello cui appartengono i
negazionisti è un mondo rovesciato,
in cui i tedeschi sono le vittime di una propaganda ostile e menzognera,
elaborata a posteriori, e gli ebrei invece subdoli manipolatori, che sguazzano
nel culto dell’Olocausto per trarne vantaggio. Di Cesare si sofferma su un
fatto troppo spesso ignorato, eppure di primaria rilevanza: che la negazione non è che un’altra, una nuova
forma dell’annientamento; che le due pratiche si pongono in un rapporto di
continuità: non si può leggere l’una se non in relazione all’altra. I primi
negazionisti, del resto, furono proprio i nazisti nel loro originario tentativo
di distruggere ogni traccia delle camere a gas e della “soluzione finale”.
Se a livello linguistico la
negazione è prima di tutto un modo per ipotizzare una realtà diversa e quindi
far procedere dialetticamente un confronto (le cose non stanno in un certo
modo, quindi stanno in un altro), quella perpetrata dai negazionisti è una
posizione diversa:
quando dicono “non è”, vogliono dire “non esiste”; il non-essere nega l’essere, lo annienta e lo nullifica. Il loro negare emerge dal nulla e affonda nel nulla. [Il negazionista] è appostato lungo il filo spinato per negare quel che è avvenuto. […] Il luogo in cui cerca di insinuarsi […] è quello dove può completare l’annientamento” (p. 43, 44).
Ma negare Auschwitz significa minare le fondamenta su cui sorge l’Europa
moderna, costruita a margine di quel baratro di barbarie di cui deve
continuamente tener conto, nel suo proiettarsi verso il futuro.
È pericoloso, osserva
l’autrice, ridurre questa posizione, così come quella dei nazisti, o di Hitler
stesso, all’idea di un delirio. C’è piuttosto, in essa, una precisa progettualità, sostenuta da un sostrato ideologico e
filosofico, che passa attraverso l’articolazione di un immaginario ben definito
e una ridefinizione del linguaggio
(il nazismo è un “potere che si impone
plasmando una nuova lingua”, p. 60). Il capitolo sulla “cancellazione della
lingua”, che prelude al tentativo di cancellazione degli ebrei, e poi della
loro memoria, è uno dei più interessanti del volume. La lingua, del resto, è il
terreno su cui si innesta oggi la propaganda negazionista. Diffusa in tutto il
mondo, ma radicata in Europa, questa cerca “di
provare che al posto di quel pieno di morti, che gli ebrei rivendicano
rumorosamente, non ci sarebbe che il vuoto di una menzogna di dimensioni
universali” (p. 66). E a chi difende le posizioni negazioniste in virtù di
una concezione illuministica della libertà d’opinione, Di Cesare dimostra che non è opinione quella che vuole negare ogni
apertura al dialogo, che mira alla soppressione soltanto delle idee altrui,
ma anche dell’altro stesso in quanto essere. Ammettere i negazionisti al
dibattito pubblico, mettersi sul loro piano nel tentativo di confutare la loro
posizione, è rischioso perché le dà visibilità e le riconosce lo statuto di
pensiero che può legittimamente essere espresso, quando non è così, per la sua
natura intrinseca.
Il negazionismo non è né un ornamento né, tanto meno, un contributo critico. L’impresa di chi ne raccoglie la documentazione, ne smaschera metodi e strategie si scontra però nel vacuo della loro ripetizione e finisce non di rado per offrire legittimità. […] Il dibattito storico è votato al naufragio contro chi nega anche di fronte alla prova più schiacciante. […] I negazionisti non vogliono ricercare nulla. […] Piuttosto vanno perlustrando ossessivamente le indagini altrui per trovare un’inesattezza, un’incoerenza, lo spiraglio di una contraddizione. Sono dobermann del pensiero. (p. 91, 92)
Ciò che bisogna invece tentare è l’operazione inversa: mantenere viva la memoria, dare voce ai testimoni che i
negazionisti vorrebbero mettere a tacere, rileggere il presente alla luce di un
passato che non è cristallizzato, ma allunga le sue radici verso il presente.
Questo era ben chiaro del resto anche a Primo Levi, che vive e narra perché
Auschwitz possa non ripetersi: “leggere
al fondo del presente le tracce del passato, che rischia di essere dimenticato
o rimosso, se non cancellato, significa riscattarlo nel ricordo elevandolo a
dignità nella storia” (p. 108).
Attraverso il suo saggio, Di
Cesare provvede a smontare molti dei
luoghi comuni e degli espedienti retorici cui si aggrappano i negazionisti:
il revisionismo quasi maniacale delle cifre, il tentativo di sminuire la
portata delle camere a gas, la loro funzione o la loro stessa esistenza (attraverso
il ricorso a presunti esperti o documenti pseudoscientifici), la tendenza a
confrontare esperienze radicalmente diverse (ad esempio i gulag sovietici e i
campi di sterminio).
Ciò che non deve essere
dimenticato, ci ribadisce, è invece l’abominio
di uno sterminio sistematico che non è mezzo, ma “fine in sé” (p. 125). Proprio per questa unicità, che non deve
farne un idolo, ma qualcosa da guardare in faccia, è importante trovare un modo
per “dire” Auschwitz, per non ridurlo a un’indicibilità
che fa senza volerlo il gioco dei revisionisti: “Auschwitz è inscritto nella modernità, fa parte del mondo nel quale
continuiamo a vivere e di cui resta un orizzonte possibile” (p. 130). Il continuo
ponte tra passato, presente e futuro è la chiave con cui leggere questo saggio,
che risulta per diversi aspetti illuminante. Avrebbe avuto forse più senso
invertire l’ordine degli interventi, ponendo per primo quello che dà il titolo
alla raccolta e che fornisce un inquadramento del fenomeno del negazionismo,
partendo dalle sue origini e dalla ricerca di una precisa definizione,
tratteggiandone le linee di sviluppo e i pericoli connaturati. In realtà però
anche i due saggi aggiuntivi risultano complementari, e ugualmente utili per
decifrare il dibattito politico e culturale odierno e ricordare qual è la
responsabilità a cui ciascuno di noi è chiamato.
Carolina Pernigo
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