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Ferite che il passare del tempo non affievolisce: "Shooting in Sarajevo", di Luigi Ottani

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Shooting in Sarajevo
di Luigi Ottani
a cura di Roberta Biagiarelli
Bottega Errante Edizioni, 2020

pp. 125
€ 19,00 (cartaceo)

Fotografare e sparare non è proprio la stessa cosa. Si inquadra nello stesso modo, si trattiene il respiro nello stesso modo, si preme il grilletto, praticamente nello stesso modo. Ci si rilassa dopo un click, ma non mi è dato sapere quale sia la reazione del corpo, del respiro, dell’anima dopo aver premuto il grilletto e ucciso. Ad ogni scatto io ero il fotografo, ma avrei potuto essere il cecchino. Questo mi sconvolgeva.

To shoot è un’espressione inglese che ha diversi significati, fra cui “sparare” e “fotografare”; interessante ambiguità che ha generato l’idea cui si deve questo lavoro: non un mero reportage fotografico – nonostante la predominanza e il valore della parte iconografica –, piuttosto un  progetto co-costruito mediante le testimonianze di diversi protagonisti, diretti o indiretti, del periodo in cui ebbe luogo l’assedio di Sarajevo da parte delle milizie territoriali serbo-bosniache, ossia dall’aprile del 1992 al marzo del 1996: tre anni e undici mesi, l’assedio più lungo della storia moderna, avvenuto sotto lo sguardo inerte dell'Europa e dell'intero Occidente.

Il progetto parte da un’idea semplice e restituisce un risultato agghiacciante: nel 2015 Luigi Ottani scatta una serie di fotografie a lunga distanza esattamente dai punti dove nel periodo dell’assedio erano appostati i numerosi cecchini che sparavano in modo indiscriminato sulla popolazione civile, aumentando a dismisura il senso di panico e di disperazione già provocato dai continui bombardamenti su case, scuole, ospedali e piazze. Alle fotografie, già di per sé evocative e drammatiche, Ottani sovrappone un reticolo simile a quello dei mirini telescopici usati dai cecchini, in modo da rendere fedelmente l’immagine che questi avevano dinanzi al momento di prendere la decisione di sparare e di porre fine a una vita.

Nessun obiettivo di carattere militare o strategico appare nel mirino, non ci sono armi, divise o mezzi blindati: gli obiettivi inquadrati, che sono gli stessi che i cecchini sceglievano, sono donne e uomini che vanno al lavoro, bambini che giocano, insomma persone normali impegnate nei quotidiani fatti di vita. 

L'elemento che caratterizza la mostruosità di questo agire è proprio l'uso scientifico (si perdoni il termine) della casualità, l'assenza di una caratteristica specifica dei "bersagli", la probabilità di essere colpiti che tende a divenire certezza, il terrore e il senso di disperazione che finiscono con l'attanagliare le menti di un'intera comunità e a lasciarvi danni difficilmente riparabili.

Guardando queste foto terribilmente reali, viene naturale il voler capire quali potessero essere le ragioni (non a giustificarle, sia chiaro, cosa impossibile) alla base della scelta di uccidere a sangue freddo civili che non costituivano una minaccia diretta per gli assedianti. Grazie ai diversi contributi che formano la parte “scritta” del libro, si sviluppa una riflessione proprio sulle motivazioni di questi atti, infami ancora più di quanto infame una guerra già non sia. Difficile, forse impossibile determinarle; sappiamo solo, in mimima parte, chi erano i cecchini: “regolari”, mercenari o addirittura – nonostante possa apparire inconcepibile – volontari occasionali, persone comuni provenienti dalle ex Repubbliche Jugoslave o anche dall’estero, che a tempo perso si dedicavano a questa attività.

"Col trascorrere del tempo e il perpetuarsi della guerra, qualcuno di loro veniva catturato dalle brigate anti-sniper e lo scoprire chi fossero aumentava lo stupore: un cacciatore di cervi e ora di esseri umani, un padre di famiglia che chiedeva la pietà che non aveva avuto, una olimpionica rumena di tiro al piattello. Avrebbero confessato, durante gli interrogatori in carcere, che c’era un tariffario per le loro imprese: 1000 marchi tedeschi per un bambino, 800 per una donna incinta, giù a scalare fino ai 500 marchi per un maschio adulto. La banalità monetaria del male, nemmeno l’alibi seppur orrendo di un’ideologia".

Nel lunghissimo assedio di Sarajevo, i bombardamenti e l’azione dei cecchini hanno causato la morte di oltre undicimila civili, 11.541 per la precisione. I bambini sono oltre mille. Nessuno dei cecchini di Sarajevo è stato giudicato da un tribunale per le proprie azioni.

Shooting in Sarajevo è un lavoro superbo dal punto di vista delle immagini, su ognuna delle quali si può passare un tempo infinito ricavandone suggestioni profonde, ma non solo: la parte tecnica-documentale è essenziale ma utile a capire le dimensioni del fenomeno e la successione cronologica degli eventi. La mappa delle postazioni dei cecchini, posta in fondo al volume, permette di visualizzare quanto ineluttabile, precaria e aleatoria fosse la condizione di ogni donna, uomo, bambino, anziano in una cittadina ai margini dell’Europa alla fine del Ventesimo Secolo. I contributi testimoniali, poi, aggiungono senso e importanza al progetto, perché recati da protagonisti diretti quali, tra gli altri, Jovan Divjak, che fu il comandante delle forze di difesa della città, o Azra Nuhefendić, giornalista che viveva nella Sarajevo assediata. Tutte le testimonianze sono raccolte da Roberta Biagiarelli, esperta di storia e cultura dei Balcani, che ha coordinato la parte testuale del libro.

Trent’anni trascorsi, ferite ancora aperte.

Stefano Crivelli