Bilal
di Fabrizio Gatti
La Nave di Teseo, 2022 (nuova edizione)
pp. 496
€ 19 (cartaceo)
di Fabrizio Gatti
La Nave di Teseo, 2022 (nuova edizione)
pp. 496
€ 19 (cartaceo)
L'aereo del pomeriggio vola su batuffoli di nuvole che nascondono il mare e la Sicilia. Lentamente, inesorabilmente sto diventando Bilal Ibrahim el Habib. Nato il 9 settembre 1970 nel villaggio immaginario di Assalah, distretto di Aqrah, Kurdistan iracheno. Non ho quasi più nulla di mio addosso, a parte la patente e la carta d'identità. Orologio, portafoglio, telefonino, passaporto sono rimasti nella cassaforte della redazione. Bilal non deve possedere nulla di tutto questo [...] La nostalgia, il dolore dell'anima. È il giusto tormento per sentirsi fino in fondo uno dei tanti Bilal. Uno tra le migliaia di uomini e donne costretti a lasciare a casa i loro amori per incamminarsi lungo il fiume della vita. (p. 317)
Dal 2003 al 2007 Fabrizio Gatti ha fatto un viaggio da infiltrato lungo la rotta dell'immigrazione, la rotta dei nuovi schiavi.
È partito dalla stazione della metropolitana di Milano, ha attraversato il Senegal, il Mali, si è ritrovato ad Agadez. Tante, quasi infinite, le tappe successive: il Ténéré, Dirkou, il confine tra la Libia e il Niger, la Tunisia, e poi Lampedusa. L'ha fatto per mescolarsi al mondo che ogni giorno, da anni, rischia la vita per percorrere un viaggio infernale da Sud a Nord, e spesso viene poi rimandato a forza da Nord a Sud, rigettato nella vita da cui cercava di fuggire.
Da questa materia viva è nato Bilal, il libro d'inchiesta di Gatti, già best seller in diversi paesi europei quali Francia, Germania, Norvegia e Svezia, e vincitore tra gli altri del premio letterario internazionale Tiziano Terzani 2008, dello Human Rights Award 2014 e del premio Ryszard Kapuściński 2021. Una storia che è arrivata in libreria di recente in una nuova edizione de La Nave di Teseo, per i cui tipi era uscito anche Educazione americana (di cui abbiamo scritto qui), un incredibile (ma vero) viaggio dentro la macchina della CIA e dentro la vita di un agente operativo clandestino.
È partito dalla stazione della metropolitana di Milano, ha attraversato il Senegal, il Mali, si è ritrovato ad Agadez. Tante, quasi infinite, le tappe successive: il Ténéré, Dirkou, il confine tra la Libia e il Niger, la Tunisia, e poi Lampedusa. L'ha fatto per mescolarsi al mondo che ogni giorno, da anni, rischia la vita per percorrere un viaggio infernale da Sud a Nord, e spesso viene poi rimandato a forza da Nord a Sud, rigettato nella vita da cui cercava di fuggire.
Da questa materia viva è nato Bilal, il libro d'inchiesta di Gatti, già best seller in diversi paesi europei quali Francia, Germania, Norvegia e Svezia, e vincitore tra gli altri del premio letterario internazionale Tiziano Terzani 2008, dello Human Rights Award 2014 e del premio Ryszard Kapuściński 2021. Una storia che è arrivata in libreria di recente in una nuova edizione de La Nave di Teseo, per i cui tipi era uscito anche Educazione americana (di cui abbiamo scritto qui), un incredibile (ma vero) viaggio dentro la macchina della CIA e dentro la vita di un agente operativo clandestino.
Il presupposto di base è che per capire davvero il perché dell'immigrazione l'unica cosa da fare sia partire. Bisogna diventare uno dei tanti Bilal che affrontano la rotta della morte, lasciando tutto indietro e senza sapere cosa li aspetti. Senza sapere se sopravviveranno al Mediterraneo.
Questo libro è il romanzo di formazione di un giornalista d'inchiesta che fa l'esercizio di vestire i panni altrui, un esercizio estremo perché si tratta dei panni di chi non conosciamo davvero. Non umanamente.
Tutto è reale in questa storia: le tappe, le macchine che si rompono lungo strade deserte, le notti di febbre, i piazzali degli autogare, i centri di detenzione, le barche che affondano, le torture e le violenze sessuali. Bilal è un reportage nel senso più profondo di indagine dell'umano come confine: di scelta, di coraggio, di rischio, di paura. Per lasciare tutto e rischiare la morte devi per forza trovarti a un confine.
Il libro è polifonico: lungo il proprio tragitto Fabrizio-Bilal incontra uomini e donne di ogni origine e storia. Si sente forte l'alternanza tra la prima persona di chi racconta e il dialogare fitto con gli altri, che a volte si sviluppa quasi come un discorso indiretto libero. Questo mi ha reso il procedere a tratti faticoso come il viaggio che il volume racconta.
Tra i vari dialoghi del libro c'è quello impossibile con Dio che, benché venga spesso invocato dai personaggi, non c'è mai lungo la rotta dell'emigrazione. Oppure, se c'è, guarda impassibile i bambini annegare.
Uno dei lati più interessanti della narrazione di Bilal è lo sdoppiamento interiore dell'autore-viaggiatore: in più momenti è portato a chiedersi se quello che sta succedendo a lui non andrebbe in modo completamente diverso per uno degli altri, per uno dei veri viaggiatori. La sua possibilità interiore di resistenza, seppure messa a dura prova, è più solida. La sua prospettiva è tornare a casa, la loro è scappare dalla propria casa. Nel processo letterale di trasformazione in Bilal lo sdoppiamento sarà completo ed ecco che arriverà la terza persona a narrare la storia.
Questo libro è il viaggio in un'Africa sinestetica nei colori, odori e sapori. I venti sono rabbiosi, le albe fragorose, il caldo ossessionante. Non è un'ode romantica a un continente straordinario, perché anche il suo paesaggio più affascinante è letto dal punto di vista di un viaggio potenzialmente mortale. Il corpo è in ascolto e soffre per questo.
Per scrivere di immigrazione bisogna partire, ma anche per parlarne bisogna sapere di più, toccare più da vicino la materia scottante delle vite di confine, ascoltarle fino a comprenderne almeno un pezzetto. Bilal ti dà la consapevolezza di quanto sia limitato il nostro modo di discuterne, di quanto sia misera la retorica della politica a riguardo, di quanto siamo piccoli se confrontati con delle esperienze così grandi e terribili.
Tutto è reale in questa storia: le tappe, le macchine che si rompono lungo strade deserte, le notti di febbre, i piazzali degli autogare, i centri di detenzione, le barche che affondano, le torture e le violenze sessuali. Bilal è un reportage nel senso più profondo di indagine dell'umano come confine: di scelta, di coraggio, di rischio, di paura. Per lasciare tutto e rischiare la morte devi per forza trovarti a un confine.
Il libro è polifonico: lungo il proprio tragitto Fabrizio-Bilal incontra uomini e donne di ogni origine e storia. Si sente forte l'alternanza tra la prima persona di chi racconta e il dialogare fitto con gli altri, che a volte si sviluppa quasi come un discorso indiretto libero. Questo mi ha reso il procedere a tratti faticoso come il viaggio che il volume racconta.
Tra i vari dialoghi del libro c'è quello impossibile con Dio che, benché venga spesso invocato dai personaggi, non c'è mai lungo la rotta dell'emigrazione. Oppure, se c'è, guarda impassibile i bambini annegare.
Uno dei lati più interessanti della narrazione di Bilal è lo sdoppiamento interiore dell'autore-viaggiatore: in più momenti è portato a chiedersi se quello che sta succedendo a lui non andrebbe in modo completamente diverso per uno degli altri, per uno dei veri viaggiatori. La sua possibilità interiore di resistenza, seppure messa a dura prova, è più solida. La sua prospettiva è tornare a casa, la loro è scappare dalla propria casa. Nel processo letterale di trasformazione in Bilal lo sdoppiamento sarà completo ed ecco che arriverà la terza persona a narrare la storia.
Questo libro è il viaggio in un'Africa sinestetica nei colori, odori e sapori. I venti sono rabbiosi, le albe fragorose, il caldo ossessionante. Non è un'ode romantica a un continente straordinario, perché anche il suo paesaggio più affascinante è letto dal punto di vista di un viaggio potenzialmente mortale. Il corpo è in ascolto e soffre per questo.
Per scrivere di immigrazione bisogna partire, ma anche per parlarne bisogna sapere di più, toccare più da vicino la materia scottante delle vite di confine, ascoltarle fino a comprenderne almeno un pezzetto. Bilal ti dà la consapevolezza di quanto sia limitato il nostro modo di discuterne, di quanto sia misera la retorica della politica a riguardo, di quanto siamo piccoli se confrontati con delle esperienze così grandi e terribili.
Il lettore è chiamato a guardare da fuori un'esperienza che per fortuna non gli appartiene.
E a ricordarsi che, davvero, se non gli appartiene è solo per fortuna.
E a ricordarsi che, davvero, se non gli appartiene è solo per fortuna.
Claudia Consoli