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Attimi di lucida intromissione: James Joyce e le sue «Epifanie» in una nuova edizione illustrata per Racconti Edizioni

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Epifanie
di James Joyce
Racconti edizioni, novembre 2021

illustrazioni e postfazione: Vittorio Giacopini
introduzione e traduzione: Carlo Avolio
prefazione: Enrico Terrinoni

pp. 256
€ 23 (cartaceo)

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È il 2 febbraio del 1922. Sylvia Beach, proprietaria della libreria Shakespeare and Company, sta aspettando fuori dalla Gare de Lyon un autore irlandese senza patria, che, mesi prima, con la cortesia e la cupezza che lo contraddistinguono, le ha chiesto di diventare suo editore. Editore di un libro che tanto stava faticando ad arrivare nelle mani dei lettori per via dei continui sbarramenti della censura. Questo libro è quello che Sylvia si stringe al petto nell’attesa. Ha una copertina turchese, quasi verde mare, di una carta liscia e semplice. Si intitola Ulisse e l’uomo che Sylvia sta aspettando alla stazione è il suo autore, James Joyce. Il 2 febbraio di quell’anno è anche il suo quarantesimo compleanno, e Sylvia ha fatto di tutto per far sì che il miglior regalo possibile fosse pronto per quella data, per marchiare l’inizio di un nuovo tempo, di un nuovo Joyce, e di una nuova lei.

Oggi è il 2 febbraio 2022; cento anni dopo la pubblicazione di Ulisse e 140 anni dalla nascita di Joyce, che approda nel mondo nella sua immobile e onnipresente Dublino il 2 febbraio 1882. Dopo più di un secolo, abbiamo imparato ad accettare e a capire James Joyce, ad amarlo, odiarlo, studiarlo, interpretarlo, sentirlo vicino o lontano da noi, dalla nostra idea di scrittura e di letteratura. Proprio per questo, l’approccio alla sua produzione considerata secondaria è così invitante. Secondaria non da intendersi come marginale o di minor valore, ma come addizionale, arricchente e necessaria

Mi è sembrato perfetto, pertanto, raccontare oggi di un elemento di questa letteratura joyceiana secondaria con uno dei titoli che ha chiuso il 2021 di Racconti edizioni. Un volume prezioso e un po’ speciale, che celebra un’opera frammentata e squisitamente incompiuta: si tratta di Epifanie, una raccolta di stralci narrativo-poetici tradotti e introdotti da Carlo Avolio (che già li aveva interpretati in italiano nel 2014 per Clinamen), curati da Enrico Terrinoni e Vittorio Giacopini, il quale si è occupato anche delle illustrazioni, che adornano splendidamente il testo dal punto di vista estetico e contenutistico. 

Per chi conosce anche solo un briciolo James Joyce, è noto quanto una delle parole chiave della sua poetica sia il termine “epifania”. Nella sua introduzione, Avolio fornisce il suo significato etimologico, dalla tradizione greco antica, in quanto «manifestazione visibile del divino» (p. 13). Il che, nel processo poetico e narrativo di Joyce, si traduce nel perseguimento ed esplorazione di una serie di manifestazioni di carattere “spirituale” per la chiarezza e imprevedibilità con cui si svelano. Per questa loro forma mutata, Terrinoni, poche pagine dopo, definisce con cognizione di causa l’epifania joyceiana come «eretica». E non potrei essere più concorde. La religiosità, o meglio un angoscioso rifuggire da essa, permea la scrittura di Joyce, ed è pregnante anche nella composizione fisiologica di una delle sue tematiche chiave. L’epifania, originariamente intrisa di senso divino, assume in Joyce la natura eretica della rappresentazione di momenti qualunque, che, pur essendo tali, assumono una loro singolarità ed evidenza, andando a comporre i tasselli di una costruzione che concluderà dopo molti anni. 

Le quaranta scene in prosa delle Epifanie, scritte tra il 1900 e il 1904, sono il prodotto dell’esplorazione interiore e narratologica di un Joyce poco più che ventenne, che sta formando la base per ciò che verrà in seguito; nelle parole di Terrinoni, «il suo vero impianto teorico, il vero segreto della sua arte» (p. 27). Questo Joyce ha appena abbandonato Dublino per sempre, in un esilio autoimposto che lo accompagnerà per il resto della sua vita. Racchiude e anticipa i luoghi di questa sua giovinezza, come Trieste e in seguito Roma e Parigi. Da qui, si delinea quindi con naturalezza il percorso, da esse a Dedalus, o A Portrait of the Artist as a Young Man, in cui si assiste allo sviluppo del suo personaggio alter ego, Stephen Dedalus, ai racconti di Gente di Dublino, fino all’opulenza narrativa di Ulisse e di Finnegans Wake

24.

La malia di braccia e voci- le bianche braccia delle strade, la loro promessa di abbracci stretti, e le nere braccia dei velieri che si stagliano contro la luna, il loro racconto di paesi lontani. Sono tese a dire: Siamo sole, - vieni. E le voci dicono insieme a loro: Siamo la tua gente. E l'aria è satura della loro presenza mentre mi chiamano loro consanguineo, apprestandomi a partire, agitando le ali della loro giovinezza esultante e terribile.

A chiusa delle Epifanie, troviamo un elenco argomentato e ordinato alfabeticamente, la Rubrica di Trieste, composto circa tra il 1907 e il 1912. Questo è forse il documento più curioso e arricchente del volume dal punto di vista teorico, dal momento che fornisce ritratti à la Joyce di persone e personaggi, ricordi di scene reali e non, visioni da cui ripartire in altri momenti. Come fa notare giustamente Avolio nella sua introduzione, sono da intendersi come un ponte tra i suoi romanzi a venire, e forniscono infatti materiale non indifferente per rileggere a posteriori figure come Stephen Dedalus o alcuni episodi dell’Ulisse.

Consideriamo perciò queste Epifanie, a cui è stata donata nuova vita anche grazie a tre apparati critici estremamente ben scritti, come momenti di fertilità assoluta, di genesi e di previsione mistica di una grandezza letteraria che si concentra su ciò che è piccolo, scabro e apparentemente insignificante. Consideriamole come boccioli di un’interiorità giovane e in esplorazione, come le maglie di una rete che formò, anni dopo, lo sguardo di Joyce su di sé, sul mondo e sulle lettere. 

E allora eccoci qui, noi lettori: come Sylvia, alla stazione parigina, in trepidante attesa e folli di curiosità, per vedere sbocciare il talento nella sua maturità. 

Non desiderava essere un uomo di lettere bensì uno spirito che si esprimeva attraverso il linguaggio, poiché gli era stata preclusa la strada delle arti visive per un’eredità di schiavitù, e quella della musica per il vigore della sua mente.
[dalla Rubrica di Trieste, alla voce Dedalus (Stephen)]

Lucrezia Bivona