Corpi minori
di Jonathan Bazzi
Mondadori, 2022
pp. 324
€ 19,50 (cartaceo)
€ 9.99 (ebook)
Due elementi accolgono appena si prende in mano il nuovo volume di Jonathan
Bazzi, a suggerire fin da subito una chiave di lettura: la copertina, che
mostra un soggetto in contemplazione di una realtà ampia e sovrastante, quella
in cui si muovono i “corpi minori”, che sono corpi astrali, ma anche individui
nudi, ammassati, esposti e rivelati nella loro umana fragilità; e poi l’epigrafe di Emil Cioran che, perfetta e
incisiva, dice le due anime del romanzo: “all’interno
di ogni desiderio lottano un monaco e un macellaio”.
Corpi minori parte da un’incompiutezza, un’inquietudine che il protagonista, proiezione
letteraria dell’autore, non riesce a placare. Ecco perché lo tormenta il tarlo del non amore, che viene scoperto,
messo a nudo, “portato al macello”. Ecco perché è necessaria un’esplorazione
che riporti indietro, sulle tracce delle origini di questa inquietudine. Eppure
sarebbe riduttivo leggere quest’opera soltanto come un romanzo di formazione,
un percorso a ritroso che porti con sé crescita e consapevolezza.
Se in Febbre (recensito qui) infatti la
percezione prevalente era quella di un affondo verticale della prosa,
attraverso il tempo, qui invece si osserva un
tracciato prevalentemente orizzontale, attraverso i luoghi; quella che
traccia Bazzi è una geografia del
desiderio, a partire dall’incompletezza dei vent’anni, alla ricerca di una
qualche realizzazione, peraltro sempre sentita precaria, vacillante. Il
movimento porta dalla periferia, la Rozzano-gabbia, il “rifugio inaccettabile” (p. 24), alla Milano labirintica che però è
amore, futuro, calderone di possibilità. Milano
è “la terra promessa” e per
arrivarci il protagonista è disposto a tutto, anche a passare sopra i corpi
degli altri, “sacchi per salire più su”
(p. 55). Anche il cuore, del resto, visto da tradizione come elemento unitario,
compatto, “è pieno di corridoi e passaggi
e porosità e tornanti” (p. 53), anche la
verità è variegata, poliforme, e tutto si può ipotecare. Per questo è
possibile vivere con un uomo che non si ama, per questo si cambia continuamente
via – perché quella intrapresa sembra sempre inadeguata, non all’altezza. Al
protagonista non basta una strada sola, una persona sola. Quasi non basta una
vita sola. Da filosofia all’Accademia d’arte, dai corsi di musica allo yoga,
l’esistenza si stende davanti in una
sequela di opzioni tra cui è impossibile fare una scelta definitiva.
Il romanzo di Bazzi si innesta su una prosa materica, sensoriale. Una prosa fatta di oggetti e strade
e dettagli da cui trae slancio la memoria:
I passaggi più importanti delle nostre vite restano spesso incagliati in singoli dettagli materiali, che li riassumono in un punto – immagine, oggetto, figura – senza perdere nulla di essenziale. (p. 51).
Protagonista è sempre il corpo, talvolta flessibile, alleato,
come nelle complesse posizioni di yoga che il protagonista apprende e replica
facilmente, più spesso ostile e ribelle, incline all’autosabotaggio (“la mia mente […] sa quel che c’è da fare,
mettere in scena quel tanto che occorre, scatenare il corpo contro se stesso”,
p. 40).
La prima parte del romanzo, è anche la dissezione anatomica di una menzogna, di una vita di coppia
costruita ad arte. Quella con Pietro è “una
storia d’amore a cui non manca nulla, escluso l’amore” (p. 61). Perché
Pietro offre la casa, la stabilità economica e affettiva, soprattutto
l’occasione di mettere finalmente radici a Milano. Poco importano allora i compromessi morali, il fatto che il
compagno gli susciti quasi repulsione, la coscienza messa a tacere sotto strati
molteplici di autopersuasioni, tutto pur
di non dover tornare a Rozzano. Rozzano “smette di esistere” (p. 80) e questa liberazione è anche l’estrema
ribellione rispetto al determinismo che inghiotte molte delle formichine che la
abitano: “Milano è meglio, a Milano mi
sono messo in salvo” (p. 83).
L’artificialità e la finzione continua hanno però un prezzo: la
stasi esistenziale, la rinuncia al proprio sentire più profondo, l’amputazione di parti di sé. Il
narratore si definisce in relazione agli altri, solo nello sguardo degli altri
si riconosce e trova pace rispetto al suo perenne senso di mancanza (“sono l’animale più sociale della Terra,
tutto in me è performativo”, p. 76). Le riflessioni che l’autore solleva in
merito a questo tema sono interessanti anche in relazione all’opera stessa: è
impossibile descriversi dall’interno, e quindi fallace ogni pretesa di autenticità. Solo a posteriori è possibile una revisione complessiva degli
eventi di una vita, e solo lo sguardo altrui può garantire una parvenza di oggettività.
Le persone, commenta l’io autoriale attraverso il suo personaggio, sono “esseri narrativi che non si appartengono,
fatti per essere ricomposti, raccontati dagli altri” (p. 100). Ecco allora
che qualsiasi tentativo di autofiction,
se non di autobiografia e propria, può trovare spazio solo nella frammentarietà, nella disgregazione di chi non ha che una
visione parziale sulle cose.
Nella seconda parte del romanzo, complementare alla prima,
l’avvicinamento al centro si configura come ricerca di un perno, di un fulcro per il proprio Sistema solare, di
qualcuno intorno a cui far ruotare l’esistenza. Questo qualcuno sembra essere
Marius, che è giovane, sfuggente, poliedrico. Marius è l’amore totalizzante, quello che riscrive la topografia dei luoghi,
delle relazioni, delle priorità. Marius diventa l’altare su cui immolarsi,
l’idolo di una nuova religione in cui
coesistono corpo e spirito. Il loro è un amore fusionale, e in cui pure il
narratore sente di poter realizzare ogni parte di se stesso, ogni variabile
ancora in potenza. Eppure un sentimento così viscerale può essere pericoloso, “perché innamorarsi significa in ogni caso
spaccare il guscio, lasciare la polpa esposta, offrirla, come la carne di
Prometeo” (p. 153). È difficile, impossibile
mantenere il controllo, dominare pienamente la realtà dell’altro e la
realtà che è l’altro. E quando le
cose si fanno difficili, ecco che al
monaco subentra il macellaio. Quello che di fronte all’impegno che stringe
devasta, lacera, esibisce gli organi straziati, sabotatore di se stesso mentre respinge l’altro:
Sono un involucro che racchiude l’ordigno, la sottile cartapesta dentro cui cova il bisogno di fare una strage. Attentatore e vittima, questo è il momento in cui scopro […] che si possono riassumere i ruoli opposti in un’unica testa, unico corpo, figura – quanti ruoli conteniamo, […] nel formicaio ci si rintana per divorarsi, più stiamo vicini e meglio viene l’eccidio. (p. 238)
Mentre il mostro emerge dall’interno e distrugge tutto, anatomopatologo di un
dolore pulsante, vivisezionatore del
sentimento agonizzante, la soluzione si fa strada attraverso cunicoli
ancora inesplorati. La terapia, che funziona e non funziona. Dare tempo, a ogni
giorno il suo fardello. E poi, il terzo
grande comprimario del romanzo, oltre al desiderio e alla città, e non meno
importante degli altri: la scrittura.
Ognuno nella nostra famiglia si inventa un codice diverso per non rimanere del tutto in silenzio, un linguaggio nuovo, altro, che si avvale della complicità di organi e tessuti, la poetica dei corpi minori. (p. 200)
L’invenzione di questo linguaggio è ciò che rende la prosa di Bazzi nuova,
eclettica, pastosa, unica e riconoscibile nel panorama letterario
contemporaneo. Anche la scrittura, come
l’amore, richiede un apprendistato, un percorso progressivo di avvicinamento,
un movimento centralizzante. La scrittura diventa lo strumento attraverso cui rileggere e trasmutare il reale,
districare la matassa dei sentimenti, provare a sfondare la superficie
dell’apparenza in cerca di una rivelazione ulteriore. Perché “la sola verità umana è quella offerta
all’interno di un racconto”, è in questo racconto che possiamo davvero
incontrare l’altro e soprattutto comprendere la verità delle relazioni: che ciascun essere desiderante ruota in
un’orbita attorno all’oggetto (al soggetto) del suo desiderio, si riduce a
corpo minore nell’eleggere l’altro a sole, punto di riferimento, forza di
attrazione gravitazionale:
Scrivendo, illuminare l’equivoco, il fraintendimento comune: tutti i corpi sono minori sotto la lente del desiderio. […] Ogni attrazione è gerarchia. Non esiste alcun centro al di fuori di quello che ci siamo inventati. (p. 283)
È la parola che salva, laddove l’amore si rivela incapace di farlo. La parola
riporta alla concretezza, ai piedi ben piantati per terra, le radici affondate
nel terriccio da cui è possibile ricominciare a crescere. Corpi minori funziona per la contraddittorietà
tutta umana che rivela, per il rifiuto di offrire soluzioni facili o
messaggi edificanti. Quella che viene raccontata è “solo una storia” (p. 313) e questa non è che apparentemente una
riduzione valoriale: si tratta in realtà dell’unica soluzione a una domanda che
non può avere, a ben guardare, altra risposta.
Carolina Pernigo