Il Piccolo elogio della non appartenenza di Michele Zacchigna si presenta, concretamente parlando, proprio come anticipa il titolo: un libricino piccolissimo, che non arriva a 60 pagine, dall’aspetto sobrio e poco ingombrante. Eppure, una così piccola mole è sufficiente per veicolare un messaggio di grande impatto riguardo un tema controverso come l’esodo istriano, qui declinato in una chiave inedita.
Come spesso accade nella storia, ci sono vicende che restano più in ombra di altre, per ragioni di varia natura. L’esodo istriano e i massacri delle foibe, commemorati il 10 febbraio di ogni anno con il Giorno del Ricordo, sono pezzi di storia dalle sfumature non sempre chiare, che spesso appartengono principalmente alle famiglie interessate. E così, come ha potuto sperimentare la sottoscritta, ci si ritrova a dover spiegare l’italianità di un nonno o un genitore istriano, profugo di quella terra sull’Adriatico che fino alla Seconda guerra mondiale era Italia.
La letteratura, da parte sua, ha fatto quanto poteva: ha restituito delle storie. E le storie degli italiani che hanno perso tutto sono spesso avvelenate dalla rabbia. Zacchigna, nel suo Piccolo elogio, comincia da qui, anche se il ragionamento viene esposto con chiarezza negli ultimi brevissimi capitoli. L’autore parte dalla consapevolezza del cieco rancore che molto spesso compone i racconti degli italiani strappati alla propria terra, per poi arrivare a proporre “un approdo diverso”, che è anche il titolo dell’ultimo capitolo.
Per costruire un approdo diverso, non si può che partire dal principio, ovvero dai primi personali ricordi della vita da profughi. Il libro si apre con la parte dedicata ai cuccioli istriani, quale era lo stesso autore, per presentare il tema da un punto di osservazione particolare: quello dei bambini, piccoli vagabondi a cui non basta il perimetro del campo profughi e vanno alla ricerca di avventure in una Trieste radiosa e ricca di segreti. Per questi bambini l’esodo, svuotato dalle connotazioni negative attribuite dagli adulti, è lo sfondo naturale della vita:
«Fra la nostra esuberanza infantile e la condizione evocata dalla parola profugo corre, nonostante tutto e per fortuna, una qualche distanza. Non riusciamo a condividere il rancore, la rabbia, il senso di perdita e di disordine che opprime e incattivisce gli animi. Cerchiamo spazi di euforia fra il disagio degli adulti sfruttando la nostra vocazione girovaga e libertaria.» (p. 9)
I bambini si misurano ogni giorno con le conseguenze dell’esodo, ma senza confrontarsi con il rancore della perdita, oppure attraversandolo con il filtro dell’euforia infantile che attutisce i colpi della storia. In altri capitoli emergono invece dei piccoli ritratti di di figure adulte, come il padre che soffre lo sradicamento dalle consuetudini del paese d’origine, o la madre Giovanna, uno dei pochi personaggi di cui l’autore fa il nome. Figura enigmatica e disarmonica, Giovanna ha perso il padre nelle foibe e ne paga le conseguenze con un «veleno sottile e penetrante che si manifestava con l’insorgere di rabbiose e improvvise allegrie […] e le folate di intemperanza aggressiva» (p. 20). Nella figura della madre, Zacchigna esprime il lavorio delle foibe sull’interiorità di molti, offrendo l’immagine di una donna che, incapace di ordinare le emozioni, se ne ciba in modo febbrile e privo di compromessi.
Il finale di questo piccolo libro riguarda un tema grandissimo: il dovere dell’appartenenza. Quando non si ha vissuto qualcosa sulla propria pelle, come si conquista un senso di appartenenza che non sia la raccolta passiva delle ingombranti rivendicazioni dei propri genitori? E ancora: l’appartenenza si esprime allo stesso modo in ogni momento della storia? Anche qui è la figura della madre a rappresentare una risposta. Nel guardarne il cadavere in età adulta, il figlio scopre il filo che lo lega alla Storia, riconoscendo la propria stessa struttura nella linea dei muscoli e delle vene della madre. E allora sì che conquista quella che per lui è la sola appartenenza accettabile, accogliendo in età adulta il retaggio istriano e sposandolo restando leale a sé stesso. Il ricordo, l’appartenenza, la perdita, possono essere vissuti e onorati «senza incappare nelle atmosfere mortifere e nella nota piagnona che in queste contrade avvolge ancora il tema dell’esodo istriano» (p. 43). Non significa mancare di rispetto alla storia, ma non inchinarsi all’ipocrisia dell’ostentazione artefatta di un dolore che non si può comprendere fino in fondo. Un atteggiamento molto diffuso in Italia, soprattutto da parte di alcune parti politiche che, per difendere i propri interessi e un improbabile nazionalismo, maneggiano il passato in modo improprio rendendolo un’accozzaglia di luoghi comuni. Zacchigna, nelle ultime righe del suo Piccolo elogio, si schiera da un’altra parte:
«Forse quella memoria merita un approdo diverso, attraverso il quale si possa recuperare innanzi tutto, lungo i percorsi spezzati, l’amore per la vita e la capacità di assaporarla, comunque, dovunque.» (p. 44)
Alessia Martoni