Sulle spalle di un gigante: "Tolstoj" ritratto da Pietro Citati


 

Tolstoj di Pietro Citati
Adelphi, 1996

pp. 325
€ 13,00 (cartaceo)


È come visitare una cattedrale con un architetto amico che ti introduce ai sistemi della dinamica, di spinte e controspinte, nervature, contrafforti, pilastri e capriate con cui il Costruttore ha saputo tradurre in scienza la sua ispirazione religiosa e artistica. Il godimento estetico è come rifuso in materiali, marmo, cotto, arenaria, in disegni, in prese di luce, in gioco di prospettive, del cui effetto eravamo solo confusamente consapevoli, superficialmente gioiosi (p. 323).

Federico Fellini descrive magnificamente in una lettera l'esperienza di lettura del saggio di Citati, vincitore del Premio Strega 1984. La scrittura di Citati ci accompagna con competenza e passione nei boschi narrativi di un gigante della letteratura mondiale, mantenendo allo stesso tempo il "sacro rispetto" di chi sta attraversando un'opera immensa, quasi non abbracciabile nella totalità delle sue sfaccettature, e la leggerezza di narrare l'umoralità e le contraddizioni dell'uomo. Ne viene fuori un testo che sta tra la biografia, il romanzo e un saggio di critica letteraria di eccelsa fattura. Il libro, infatti, è diviso in cinque parti: la prima sulla giovinezza, la parte centrale dedicata invece all’analisi delle opere scritte da Tolstoj e alla sua poetica (Guerra e pace, Anna Karenina, Che cos'è un romanzo) e la parte conclusiva è dedicata alla vecchiaia⁣.

Citati riesce a presentarci l'unicità di Tolstoj partendo da quello che è un suo misterioso e potente talento: dissolvere la sua soggettività in una miriadi di sguardi, divenire molte cose e persone, prendere la forma di tutto ciò che racconta.

Tolstoj possedeva in modo esorbitante e quasi mostruoso quella che siamo abituati a chiamare «capacità di oggettivazione». [...] Raccontando, lui - che sembrava così incapace di uscire dal proprio io - si liberava da sé stesso; e distaccava tutto il mondo da sé stesso. Potremmo dire che in qualsiasi grande narratore avviene questo processo di trasposizione. Ma pensiamo a Flaubert, il quale all'oggettività giunse attraverso espedienti faticosi, metamorfosi complicatissime: mentre il giovane Tolstoj ci arriva subito, con una velocità inaudita e una magica naturalezza, che non si riscontra in nessun altro scrittore. Immergeva la penna in sé stesso; e subito, con «queste luci che emanavano soltanto da lui» creava delle figure e delle scene perfettamente oggettive. È uno spettacolo davanti al quale non so se prevalga l'ammirazione, o una specie di sbigottito timore. Il semplice, immenso segreto di Tolstoj stava in questo (p.42).

E davvero vi è uno sbigottito timore nel ripercorrere attraverso la lettura di Citati l'universo di Guerra e pace, il suo ardente bisogno di assoluto, il cielo di Austerlitz e la bontà di Pierre, la vitalità di Nataša e la pazienza di Kutuzov. Per ogni personaggio, Celati crea un'esegesi piena di passione e lucidità. Mette Andrej, Pierre e Nataša , così come Anna Karenina, Vronskij e Levin per l'altro suo grande capolavoro, in colloquio con l'anima di Tolstoj, ci fa comprendere cosa essi significassero per lui, da quali legami egli si sentiva avviluppato ad ognuno di loro. Ciò dà l'impressione di seguire Lev Tolstoj all'interno del suo "laboratorio di orafo", cito ancora Fellini, di sederci accanto a lui alla scrivania, sprofondare nel suo dialogo con i propri personaggi, seguire la figlia che durante la notte, quando il padre andava a letto, copiava con bella grafia le pagine frutto del lavoro quotidiano del padre. Perché di Tolstoj, il libro di Citati, restituisce anche il fascino umano, un fascino tirannico probabilmente per coloro che gli stavano vicino, un magnete da cui era impossibile sottrarsi.

E magnetica fu la residenza di Jasnaja Poljana, che attraeva tanti visitatori, che giungevano «chiedendogli la parola unica, la parola definitiva, la salvezza per questo e per l'altro mondo». Fra loro Cechov, Rilke o Gor'kij, che attendevano l'apparizione del "grande vecchio" della letteratura russa, che errava per la foresta sempre con un taccuino in tasca. Attendevano fuori la casa, fin quando da lontano appariva una macchia bianca

veniva lentamente, appoggiandosi sulla canna, come un viandante un po' stanco. Infine giungeva un vecchio dalla gran barba bianca, col passo ancora giovanile, le gambe appena arcuate, vestito con una lunga blusa e con dei pantaloni talmente larghi che si sarebbe potuto prenderli per dei pantaloni turchi. Tolstoj fissava il visitatore noto o ignoto: dalla foresta dei sopraccigli, usciva uno sguardo duro, non buono, impenetrabile, acutissimo, uno «sguardo da lupo», che dava l'impressione di un succhiello che scavasse la mente; Turgenev diceva che sembrava di vederne uscire la punta dalla nuca delle persone. Poi la scena si trasformava. Tolstoj assumeva una strana aria paterna: si chinava leggermente in avanti, tendeva o piuttosto lanciava al visitatore una mano grande, rugosa, nodosa, nella quale chiudeva mollemente la sua (pp. 292/293).

E noi ci sentiamo accolti dal sorriso incantevole e buono, benché non immediato, di Lev Tolstoj, che ci fa accomodare a casa, lo vediamo accendersi per una conversazione; conosciamo Sonja, la moglie gelosissima e devota, le figlie che lo amarono fino ad annullarsi, i tanti scolari che correvano intorno al giovane maestro che Tolstoj era stato, quando aveva trasformato Jasnaja Poljana in una scuola. Citati sa sapientemente guidarci dallo slancio della giovinezza di Tolstoj, facendoci perdonare il narcisismo e la vanità del giovane scrittore, fino al momento estremo della morte, che lo trovò alla stazione di Astapovo, in una casetta di legno dipinta di rosso. Fino alla fine, dettò alla figlia Tatjana il proprio diario, benché ne venisse fuori un brusio incomprensibile, fin quando disse: «Non posso addormentarmi, compongo sempre. Scrivo, e tutto si incatena armoniosamente». Ci chiediamo, in questa connessione profonda tra vita e opere che Pietro Citati ha tracciato, se il questa Armonia concatenata fosse analoga al cielo di Austerlitz contemplato dal principe Bolkonskij, ma ad essa seguì, il 6 novembre del 1910, un silenzio, «quel silenzio interminabile, che ascoltiamo soltanto nelle stanze dei morti».

Si conclude così un viaggio che lascia non solo il segno, ma anche la voglia di ripercorrerlo.

Deborah Donato