di Maxim Loskutoff
Black Coffee, gennaio 2022
Traduzione di Leonardo Taiuti
pp. 346
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
La frontiera, la natura incontaminata minacciata sempre più dall’avanzare dell’uomo, la gentrificazione, i disastri ambientali, la povertà, la rabbia e la violenza. Un microcosmo popolato di uomini, la solitudine, la confusione. Ruthie Fear, romanzo d’esordio di Maxim Loskutoff appena pubblicato da Black Coffee nella traduzione di Leonardo Taiuti, è una storia potente, cruda e densa di spunti impossibili da contenere nello spazio breve della narrazione, che dialoga con il nostro presente e si muove a confine fra i generi letterari, rifuggendo le etichette. Già noto alla critica statunitense per la sua raccolta di racconti Come West and see, Loskutoff ottiene per la seconda volta un High Plains Book Award con questo romanzo di formazione fuori dal comune, attraversato da un senso di tragicità imminente, brutale e stratificato, cui si perdona facilmente qualche debolezza e digressione superflua. Black Coffee ha scovato un altro diamante grezzo – che speriamo rimanga tale, lontano dalle mode letterarie, e preservi l’unicità della propria voce – e si conferma tra le case editrici più interessanti per esplorare strade letterarie poco battute, forte dell’unicità di certe voci e del desiderio di sperimentazione che rappresenta il meglio della prosa nordamericana. Già in quella copertina – di Claudia Bessi, nata da un collage di Costanza Ciattini – riconosciamo l’identità del libro, i cardini di questa storia: gli animali, una donna confusa nella natura, gli spazi aperti, il mistero.
E forse la scelta più interessante e potente è proprio la voce della protagonista, Ruthie Fear: bambina, poi adolescente e donna, è protagonista assoluta e punto di vista interno che seguiamo in quel suo mondo popolato da uomini solitari, tesa fra il desiderio di essere parte del mondo naturale e l’istinto alla violenza.
Certi giorni era determinata a non cacciare mai nessun animale come faceva suo padre. Altri invece costruiva fucili con dei pezzi di ramo, li puntava attraverso la feritoia per gli occhi e massacrava gli scoiattoli sull’alto pino giallo dei Breed. (p. 39)
Ho chiamato questo libro “romanzo di formazione”, perché nella parabola di Ruthie ci sono molti degli elementi più classici del Bildungsroman al maschile, ma è una protagonista non eroe che faticosamente cerca di capire se stessa, il mondo in cui è cresciuta, fra repulsione e affetto, trovarvi il proprio posto e venire a patti con certe mancanze. Piccole epifanie che aprono squarci, ma non troveremo consolazione in questa storia intrisa di sangue e proiettili.
Quello che Loskutoff crea sulla pagina è un mondo in cui rabbia e paura si intrecciano, di una piccola comunità del Montana sempre più stretta fra le montagne e il nuovo che avanza. La Bitteroot Valley è la moderna frontiera e come i bisonti brutalmente cacciati decenni prima, è ancora una volta epopea dell’Ovest e di conquista, dell’ultimo lupo ucciso l’anno che Ruthie venne al mondo, di ricchi e turisti che si impossessano di quegli spazi e li modificano profondamente e per sempre. È, ancora, storia di uomini – soprattutto – sepolti sotto anni di rabbia e frustrazione, di antichi rancori e colpe, che indirizzano la rabbia – e le armi – verso il nemico di turno. Gli indiani, i forestieri, il governo, i cervi. Il problema della gentrificazione che negli ultimi anni ha dato rinnovato slancio a un certo tipo di narrazioni attraversa anche il romanzo di Loskutoff, ne registra problematiche e punti di crisi, la tensione crescente. Un tema che, per restare alla narrativa statunitense più recente, è al cuore anche di romanzi e storie come Lot di Bryan Washington, Sabrina&Corina di Kali Fajardo-Anstine, La casa vicino alle nuvole di Nickolas Butler (che per il romanzo di Loskutoff spende parole di profonda stima).
Gli uomini di questa storia, si diceva quindi, sono ruvidi, incapaci di calore, spesso alcolizzati e violenti, ma anche capaci di cura e protezione, tutto ciò che di una famiglia resta a Ruthie, abbandonata dalla madre quando era bambina:
La madre di Ruthie se ne andò poco più tardi, e l’unico posto in cui la piccola riusciva a prendere sonno era sul tappeto di pelle di lupo, con la guancia posata sulla sua spalla e le piccole dita intrecciate al pelo bianco del dorso. […] Se provavano a sollevarla, la bambina strillava come un’ossessa, così dormì lì sopra fino ai quattro anni di età. Per il resto della breve esistenza della figlia, Rutherford dichiarò che era stata quell’abitudine a renderla tanto cocciuta e selvatica. Ruthie però sapeva che era stato il dover vivere fra gli uomini. (p. 14)
Cresce “cocciuta e selvatica” in quel mondo maschile, imparando presto a difendersi dagli sguardi e dalle domande su suo padre, sulla loro casa mobile, sui suoi occhi strani, rispondendo alla curiosità e al giudizio con la rabbia. Rutherford, diventato padre quando era un ragazzo e che ancora fatica a capirsi adulto, è l’unico punto di riferimento famigliare: ruvido, incapace di tenerezza, le parole scarne. Inadeguato, forse, ma la cosa stabile nella vita di Ruthie. E lei che piano piano diventa adolescente e poi donna, deve trovare da sola il modo per farlo, perché il padre è troppo imbarazzato dal cambiamento.
Il mutamento del corpo, il passaggio all’età adulta in quel mondo maschile è un tema cui Loskutoff presta particolare attenzione e sensibilità, e se non può comprendere del tutto il punto di vista di Ruthie, non su questo aspetto, ecco che allora volge lo sguardo all’esterno, registra il disagio o la brama che suscita negli uomini che le gravitano intorno. Il corpo e la sessualità esplorati in maniera selvatica, come la natura di Ruthie.
C’è dentro di lei la tensione perenne fra l’anelito alla natura e l’istinto alla caccia, il desiderio di preservare ciò che rimane del mondo selvaggio e la propensione alla violenza. Ruthie, che fin da bambina dimostra una sensibilità verso l’immateriale che la accompagnerà per tutta la vita. È un contatto con il mondo animale segnato dall’incontro con una strana creatura, mostruosa e magnifica allo stesso tempo, che tutta la vita non smetterà in fondo di cercare. In questo dualismo, si muove anche la scrittura di Loskutoff, capace di farsi ora scarna, brutale, ora tesa verso il lirismo, inseguendo il richiamo della tradizione animista che l’ha preceduta, dell’epopea di frontiera, delle ruvidità di alcune narrazioni – penso, solo per fare un esempio, ai racconti di Chris Offutt, a quegli uomini incapaci di gesti affettuosi, la morte onnipresente nel quotidiano – per trovare il proprio spazio, la propria voce, lì, nel mezzo.
Accennavo alla brutalità: basta leggere un paio di righe di questo romanzo per rendersi conto di che tipo di narrazione abbiamo davanti, fatta di carne e sangue, dove la morte è parte del quotidiano. Lo è nel lavoro di Rutherford, nella caccia, nelle rovine che gli eventi sembrano presagire. È anche una brutalità di linguaggio e di gesti, cui Ruthie si è presto abituata, nella sua comunità come altrove, simbolo di una mercificazione del corpo cui non pare esserci scampo. Un'asprezza a cui ha saputo presto rispondere con la violenza, talvolta fuori controllo, quasi un istinto primordiale e selvaggio, attaccare prima di diventare una preda.
Ruthie Fear si muove sul ghiaccio sottile di una precarietà di lì a poco pronta a infrangersi: è la rottura di un equilibrio iniziata molto tempo prima e ora pronta a travolgere ogni cosa. Il disastro ambientale non è un pericolo da scongiurare, ma qualcosa di tangibile e ormai una condanna certa, presagita da terremoti, stagioni degli incendi sempre più lunghe e devastanti, animali avvelenati, creature mostruose.
E lì, ad osservare la valle, la cima Trapper Peak, dove lo sguardo di Ruthie torna sempre, anelando a ricongiungersi con la parte più selvatica di sé ma soprattutto a ricordarci quanto piccola, insignificante sia la vita degli uomini:
Sorvegliata dalle aquile testabianca e incappucciata di neve per undici mesi l’anno, se ne stava lì a ricordarle che gli uomini erano creature spaesate, che strisciavano sul ghiaccio, ignare degli abissi sottostanti. (p. 22)
Loskutoff con questo romanzo fa una cosa essenziale: ci ricorda che la letteratura non è autocentrica, che le storie non hanno bisogno di parlare di noi stessi per colpire nel profondo e che sarà sempre necessario cercare un altrove, un punto di vista capace di scardinare le nostre certezze, anche metterci scomodi. Portarci fuori da noi stessi, ad Ovest, ancora una volta.