aveva imparato a non dire parole superflue. Al processo, mentre la nipote della signora Maldrigati piangeva, lamentandosi che le avevano assassinato la zia e tacendo dei milioni di eredità della stessa zia, voleva parlare, ma l'avvocato difensore, quasi con le lacrime agli occhi, gli soffiava all'orecchio di non dire una parola, non una: avrebbe detto la verità, e la verità è la morte, tutto meno che la verità in un tribunale, in un processo. E anche nella vita. (p.26)
Eppure l'attitudine alla verità Lamberti non l'abbandona mai. Quando Pietro Auseri, un ricco imprenditore, lo assume per controllare ventiquattr'ore su ventiquattro il figlio Davide, alcolista depresso e potenziale suicida, Lamberti cerca di scavare a fondo e trovare la causa del malessere del ragazzo.
Perché un ragazzo di quell'età desiderasse così lucidamente di morire, la causa doveva essere grave e profonda. [...] Un fatto concreto, per grave che fosse, non lo avrebbe ridotto così, anche se avesse ammazzato qualcuno, se avesse dato fuoco a un'anziana signora o messa una carica di tritolo nelle cantine della Stazione Centrale di Milano, non si sarebbe comportato così. Davide Auseri era stato distrutto da qualche cosa. O da qualcuno Era questo che doveva scoprire, il bere era una faccenda risibile.
Cercare una risposta a questa domanda porterà Lamberti alla storia di Alberta Radelli, una giovane prostituta morta un anno prima. Il giovane Auseri è tormentato dai sensi di colpa, convinto di avere una responsabilità nel suicidio della ragazza, mentre Lamberti dubita che si tratti di un suicidio. I suoi dubbi sollevano una coltre che nascondeva l'immagine vincente della Milano anni '60, per rivelare la Milano della periferia, nebbiosa e segreta, dove prostituzione e criminalità organizzata dilagano. Gli unici indizi che l'improvvisato detective ha in mano sono un rullino di fotografie bollenti e una donna forte e ribelle: Livia, che ha conosciuto Alberta e che gli svela parte del passato della vittima.
Andando avanti con la lettura, si scoprirà che non è l'unica assassinata.
I temi scomodi, per l'epoca ma ancora per oggi, ci sono tutti: eutanasia, sfruttamento della prostituzione, criminalità organizzata, alcolismo; e questi temi Scerbanenco li tratta senza dettagli pruriginosi e senza pietismo, ma con una prosa cruda, asciutta, mai volgare o violenta.
La prosa di Scerbanenco e il suo uso della punteggiatura sono uno dei motivi per cui ho maggiormente apprezzato questo romanzo.
"Se lei mi raccontasse quello che le è successo, e si facesse aiutare da me, starebbe molto meglio", gli disse. Non attendeva nessuna risposta. E non la ebbe. (p. 64)
Come il suo antieroe, anche Scerbanenco ha disimparato l'uso delle parole non essenziale e narra con spirito geometrico, non scevro da una sottile ironia, di tanto in tanto, un mondo buio e disperato, in cui tuttavia Lamberti non depone del tutto la speranza se non di una redenzione, quanto meno di una giustizia.
Non vi è la vittoria del bene il trionfo della ratio, come sovente accade nei gialli classici, e l'odore acre della sconfitta accompagna il detective, anche alla fine del caso. Scerbanenco usa il noir per narrare un aspetto dell'Italia che in molti non volevano vedere e pagina dopo pagina non possiamo che apprezzare il suo sguardo lucido, freddo, icasticamente descrittivo.