La nascita del noir in Italia: "Venere privata" di Giorgio Scerbanenco


 

Venere privata di Giorgio Scerbanenco
La nave di Teseo, 10 febbraio 2022

pp. 251
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Venere privata è un romanzo di Giorgio Scerbanenco pubblicato la prima volta nel 1966, che ha segnato, come scrive la figlia Cecilia Scerbanenco nella prefazione a questa edizione de La nave di Teseo, «un punto di frattura nella letteratura di genere del nostro paese, aprendo la strada al noir italiano» (p. 9). Dopo aver letto due libri di Scerbanenco con protagonista Arthur Jelling, in un orizzonte più classicamente "giallista", la lettura di Venere privata è stata per me piacevolmente spiazzante, come lo è scoprire le molte nuances della scrittura di un autore, capace di suonare con la medesima maestria in tonalità armoniche differenti. La stessa Cecilia Scerbanenco, nella prefazione sopracitata, insinua anche l'ipotesi che le avventure di Jelling non fossero preparatorie a quelle di Duca Lamberti, ma in che in qualche modo fossero state maggiormente influenzate da un'indicazione dell'editore di attenersi al genere giallo, che in quegli anni spopolava in quello che sociologicamente viene spesso definito il midcult (da amante dei gialli, contesto parzialmente questa definizione, che non è adattabile ai grandi classici del genere e penso davvero che Scerbanenco possa essere ascritto a questa categoria). Le indagini di Duca Lamberti, se vogliamo seguire il suggerimento della figlia, sono invece quelle in cui l'autore, libero da scadenze di stampa e richieste editoriali, può dare spazio senza alcun filtro alla propria cifra stilistica. Venere privata è la prima indagine di un detective atipico, o meglio un non-detective, Duca Lamberti. Ex medico, condannato per avere aiutato un’anziana paziente a morire, ha scontato tre anni di prigione ed è stato radiato dall’albo. Il romanzo prende le mosse proprio dalla scarcerazione di Duca, nel momento in cui si trova senza lavoro, senza legami – fatta eccezione per la sorella e la nipotina Sara – e quindi in un illimitato senso di vuoto, in cui tutto sembra possibile e, nello stesso tempo, ugualmente indifferente. Duca Lamberti è disilluso, profondamente segnato dall'esperienza del carcere, dove
aveva imparato a non dire parole superflue. Al processo, mentre la nipote della signora Maldrigati piangeva, lamentandosi che le avevano assassinato la zia e tacendo dei milioni di eredità della stessa zia, voleva parlare, ma l'avvocato difensore, quasi con le lacrime agli occhi, gli soffiava all'orecchio di non dire una parola, non una: avrebbe detto la verità, e la verità è la morte, tutto meno che la verità in un tribunale, in un processo. E anche nella vita. (p.26)

Eppure l'attitudine alla verità Lamberti non l'abbandona mai. Quando Pietro Auseri, un ricco imprenditore, lo assume per controllare ventiquattr'ore su ventiquattro il figlio Davide, alcolista depresso e potenziale suicida, Lamberti cerca di scavare a fondo e trovare la causa del malessere del ragazzo. 

Perché un ragazzo di quell'età desiderasse così lucidamente di morire, la causa doveva essere grave e profonda. [...] Un fatto concreto, per grave che fosse, non lo avrebbe ridotto così, anche se avesse ammazzato qualcuno, se avesse dato fuoco a un'anziana signora o messa una carica di tritolo nelle cantine della Stazione Centrale di Milano, non si sarebbe comportato così. Davide Auseri era stato distrutto da qualche cosa. O da qualcuno Era questo che doveva scoprire, il bere era una faccenda risibile.

Cercare una risposta a questa domanda porterà Lamberti alla storia di Alberta Radelli, una giovane prostituta morta un anno prima. Il giovane Auseri è tormentato dai sensi di colpa, convinto di avere una responsabilità nel suicidio della ragazza, mentre Lamberti dubita che si tratti di un suicidio. I suoi dubbi sollevano una coltre che nascondeva l'immagine vincente della Milano anni '60, per rivelare la Milano della periferia, nebbiosa e segreta, dove prostituzione e criminalità organizzata dilagano. Gli unici indizi che l'improvvisato detective ha in mano sono un rullino di fotografie bollenti e una donna forte e ribelle: Livia, che ha conosciuto Alberta e che gli svela parte del passato della vittima.

Andando avanti con la lettura, si scoprirà che non è l'unica assassinata.

I temi scomodi, per l'epoca ma ancora per oggi, ci sono tutti: eutanasia, sfruttamento della prostituzione, criminalità organizzata, alcolismo; e questi temi Scerbanenco li tratta senza dettagli pruriginosi e senza pietismo, ma con una prosa cruda, asciutta, mai volgare o violenta.

La prosa di Scerbanenco e il suo uso della punteggiatura sono uno dei motivi per cui ho maggiormente apprezzato questo romanzo.

"Se lei mi raccontasse quello che le è successo, e si facesse aiutare da me, starebbe molto meglio", gli disse. Non attendeva nessuna risposta. E non la ebbe. (p. 64)

Come il suo antieroe, anche Scerbanenco ha disimparato l'uso delle parole non essenziale e narra con spirito geometrico, non scevro da una sottile ironia, di tanto in tanto, un mondo buio e  disperato, in cui tuttavia Lamberti non depone del tutto la speranza se non di una redenzione, quanto meno di una giustizia.

Non vi è la vittoria del bene il trionfo della ratio, come sovente accade nei gialli classici, e l'odore acre della sconfitta accompagna il detective, anche alla fine del caso. Scerbanenco usa il noir per narrare un aspetto dell'Italia che in molti non volevano vedere e pagina dopo pagina non possiamo che apprezzare il suo sguardo lucido, freddo, icasticamente descrittivo.