Teoria del restauro
di Cesare Brandi
La nave di Teseo, 2022
pp. 292
€ 9,99 (ebook)
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Dato alle stampe per la prima volta nel 1963, Teoria del restauro di Cesare Brandi (1906-1988) è un testo fondamentale per la storia della disciplina e per l’attività di conservazione e tutela, un lavoro a cui lo studioso ha consegnato una sorta di testamento professionale (ma anche personale e “spirituale”) che ha fatto scuola, stabilendo, con la sua pubblicazione, ciò che si definisce un ante quem e un post quem. Leggerlo (o eventualmente rileggerlo) adesso nella nuova edizione uscita proprio in questi giorni per La nave di Teseo, e dunque in circostanze come quelle attuali, in cui il flusso delle immagini sui principali media e social network testimonia da più di un mese la quintessenza della distruzione e della rovina, non può non fare un certo effetto: si sfogliano pagine che parlano di rispetto e recupero, di cura e premura, e si hanno davanti agli occhi, seppure filtrate dalle lenti e dagli schermi, macerie di ogni sorta intervallate da disperati tentativi di salvaguardia; salvaguardia della vita in primis, certo, ma anche, e con la stessa disperata urgenza, di un patrimonio artistico e identitario, quasi come in un’operazione preventiva che venga condotta in condizioni di estremo allarme e pericolo.
Se dunque la riedizione di un testo miliare come quello in esame ha pur sempre le caratteristiche dell’omaggio che periodicamente si tributa ai classici, l’occasione del suo ritorno in libreria coincide con un momento in qualche modo (e suo malgrado) propizio per una riflessione ad ampio raggio sulle tematiche affrontate nel volume. In esso, difatti, il pionieristico direttore dell’Istituto Centrale del Restauro voluto da Giuseppe Bottai e Giulio Carlo Argan, giunto al termine di un incarico ricoperto a partire dalla fondazione dell’Istituto stesso (ovvero dal 1939 al 1960, anno in cui gli subentrò l’allievo Giovanni Urbani), consegnava ai suoi contemporanei e ai posteri una trattazione illuminante, che mirava a dotare la prassi corrente di uno statuto che fosse valido a livello teorico e scientifico, con il dichiarato intento di portare la materia a un livello superiore rispetto alle scelte di tipo empirico, e non sempre condotte in modo rigoroso, che l’avevano fino a quel momento caratterizzata.
La Teoria viene dunque riproposta per intero, corredata da una serie di interventi in Appendice – vari i focus: dalla falsificazione al ruolo delle cornici in sede di restauro, dal trattamento della pittura in base alla presenza di lacune alla pulitura dei dipinti in relazione a patine, vernici e velature – e dalla Carta del Restauro 1972, ovvero il documento che, con circolare n. 117 del 6 aprile di quello stesso anno, venne diramato dal Ministero della Pubblica Istruzione a tutti i soprintendenti e capi di Istituti autonomi, disponendo che, per ogni intervento di restauro su qualsiasi opera d’arte, si attenessero scrupolosamente ed obbligatoriamente alle norme contenute nella Carta medesima. Completano il quadro quattro ulteriori interventi: la Prefazione affidata a Vittorio Sgarbi, l’Introduzione a firma di Massimo Carboni (Il ritorno di un classico), un articolo di Antonio Paolucci, «Il filosofo del buon restauro», pubblicato su Il Sole 24 Ore del 30 aprile 2006 (anno del centenario della nascita), e un intervento di Giuseppe Basile (Gli insegnamenti culturali nella scuola del restauro, dedicato all’omonimo testo brandiano ritrovato inedito e datato al 1940) tratto proprio da Il restauro. Teoria e pratica di Cesare Brandi nell’edizione curata da Michele Cordaro nel 2005.
Così, mentre il testo del 1963 è ancora godibile per interno nella sua forma originale, queste prose ulteriori si rivelano molto utili per chiarire meglio il pensiero brandiano anche al lettore non specialista; non perché esse ne offrano una qualche semplificazione, ma perché tutte, ciascuna a suo modo, mettono in evidenza aspetti importanti e utili alla comprensione del ruolo avuto da un personaggio di riferimento a livello italiano e internazionale, riconosciuto e ricordato non solo come fondatore della teoria del restauro ma anche come critico e storico dell’arte, studioso di estetica, saggista, scrittore e poeta.
Pur nella relativa brevità del suo intervento prefatorio, sono numerosi e tutti molto significativi i primati e i risultati che Vittorio Sgarbi riconosce a Cesare Brandi. Tra questi, e fondamentali, vi sono la considerazione dell’opera d’arte come un’identità fisica e non più come un’idea dipinta o scolpita (e dunque come un organismo vivente da conoscere nella composizione e di cui conservare l’originalità), il passaggio dal restauro come “ricostruzione” al restauro come “conservazione”, e dunque una nuova concezione che non lo intende più come mera pratica artigianale ma come disciplina dotata di un fondamento filosofico. Se il restauro è ciò che dell’opera salva “corpo e anima”, ben si comprende l’avversione brandiana nei confronti di tutto ciò che è posticcio, integrativo, e come tale incapace di distinguere l’autentico dall’inautentico: questo perché il restauro, se mai lo è stato in passato, da Brandi in poi non avrà più valore in qualità di integrazione, rifacimento o ricostruzione, ma dovrà essere sempre ricerca dell’autentico e responsabilità estetica. Per questo l’attività del restauratore non sarà e non potrà più essere un atto meramente meccanico, e il suo intervento non dovrà avere nulla di mimetico e ricostruttivo: nel momento in cui sarà stabilito con l’opera da restaurare un rapporto “spirituale” e non solo fisico, ecco che verrà da sé anche il rapporto del restauratore con le aggiunte e le rimozioni, che sono – esse pure e proprio come l’opera – testimonianza storica dell’azione dell’uomo.
Anche Massimo Carboni, nel definire il testo di Brandi come “un aureo trattato dal sapore illuminista”, insiste sul fatto che l’autore di Teoria del restauro è stato il primo a porsi il problema di dotare la disciplina di uno statuto concettuale che procedesse in modo logico e deduttivo, a partire da premesse di ordine estetico e filosofico dichiarate esplicitamente come assiomi e principi; e allo stesso tempo, continua Carboni, Brandi ha messo in evidenza anche la necessità di essere elastici e di relazionarsi con l’opera d’arte individuale nella sua specificità e singolarità. L’Introduzione si sofferma poi su alcuni dei nessi chiave del pensiero brandiano: il rapporto tra materia e immagine e tra aspetto e struttura; la convinzione che la materia sia un mezzo e non un fine; la nozione di restauro “preventivo” inteso come azione che permetterà in futuro di non intervenire sull’opera d’arte (le opere non vanno tutelate e protette col restauro ma dal restauro); il rapporto tra istanza estetica e istanza storica e la loro coesistenza all’interno dell’attività di restauro; il restauro come momento privilegiato e paradigmatico della socializzazione e della storicizzazione della singola coscienza che intercetta l’opera d’arte riconoscendola come tale; l’attività di restauro come attività critica intesa come dimensione teorica e operativa, intellettuale e pragmatica, insomma come “un’ermeneutica pratica” (e difatti, in chiusura, Carboni propone un confronto con uno dei testi base dell’ermeneutica novecentesca, ovvero Verità e metodo di Hans-Georg Gadamer).
Più focalizzati sulla fortuna editoriale e sulle applicazioni concrete della Teoria brandiana sono, invece, i due testi di Antonio Paolucci e Giuseppe Basile posti in coda al volume. Il primo, tra le altre cose, ricorda come il libro sia stato tradotto in tutti gli idiomi del mondo (inglese, francese e spagnolo ma anche cinese, giapponese, polacco, portoghese, greco e rumeno), abbia fatto diventare l’italiano lingua franca nei principali laboratori di conservazione e sia stato adottato come manuale di base nelle università e negli istituti di restauro da Occidente a Oriente; il cosiddetto “idealismo pragmatico” brandiano ha fatto insomma scuola a livello globale, mutando per sempre lo statuto del restauro in quello di un “atto critico”, e il suo successo su così vasta scala si accorda bene sia con l’attenzione che lo studioso riservava sempre alla vita e alla storia dell’opera d’arte nelle sue relazioni con il contesto, sia con lo spirito da viaggiatore ed esploratore di Brandi (basti pensare, ricorda Paolucci, ai suoi scritti riguardanti le devastazioni del Belpaese, in cui convivevano “la sensibilità dell’esteta, la consapevolezza dello storico e l’indignazione civile”).
Il testo di Basile, invece, dedica ampio spazio alla descrizione della nuova figura di restauratore di stampo brandiano: non un artigiano, non un artista, bensì un tecnico sui generis ad altissima specializzazione, “sagace come un clinico e prudente come un chirurgo”; questo perché l’obiettivo principale nella sua formazione doveva essere innanzitutto la creazione di una coscienza critica, da cui derivava l’importanza dello studio della storia dell’arte. Per l’autore della Teoria, il nuovo restauratore sarebbe dovuto essere un professionista anomalo, risultato di un percorso formativo atipico, fondato sulla interdipendenza dei campi disciplinari eterogenei ma complementari, con la stessa attenzione dedicata all’insegnamento teorico e a quello pratico. Nel ricordare alcune criticità attuali del settore – due, e macroscopiche: il proliferare di corsi regionali o di corsi di laurea o di Accademia non paragonabili alla formazione presso l’Istituto o l’Opificio della pietre dure a Firenze, con tutto ciò che ne consegue; i numerosi passi indietro fatti fino al 2005, che invece che esaltare la figura di un professionista altamente formato hanno incoraggiato l’esistenza di altre figure non altrettanto specializzate – Basile ricorda come le preoccupazioni di Brandi fossero sempre estremamente concrete: la durata della scuola, il numero degli allievi per corso, le possibilità di assorbimento nel mondo del lavoro, la distribuzione su tutto il territorio nazionale e non solo nei centri nevralgici, la collocazione idonea in base all’inquadramento sindacale, l’assimilazione del restauratore al rango dell’artigiano.
Testo fondamentale per chiunque si occupi di beni culturali e nello specifico di restauro, quello di Cesari Brandi – di cui La nave di Teseo propone in catalogo anche la raccolta Martina Franca (2019) e il saggio Spazio italiano, ambiente fiammingo (2020) – è dunque un contributo dal quale non si può prescindere: averlo nuovamente a disposizione in questa nuova edizione, in cui, come si è detto, la Teoria vera e propria è corredata dalla Carta del Restauro 1972, da vari testi autografi (sciolti, e tutti parimenti significativi) e da contributi prefatori, introduttivi e di commento affidati a quattro firme di pregio, è un’ottima occasione per avvicinarsi a un corpus teorico che a distanza di decenni non ha perso né di forza né di attualità, e che ancora ci ricorda come il valore del pensiero preceda sempre quello delle azioni.
Cecilia Mariani