Canto per Europa
di Paolo Rumiz
Feltrinelli, ottobre 2021
di Paolo Rumiz
Feltrinelli, ottobre 2021
pp. 253
€ 17,00 (cartaceo)
€ 11,99 (e-book)
Leggere un libro di Paolo Rumiz significa partire per un viaggio. Non soltanto geografico, ché tutti i libri dello scrittore triestino hanno a che fare con viaggi a piedi, in bicicletta, in auto, per lavoro (memorabili i suoi reportage da Sarajevo ai tempi della guerra dei Balcani), per piacere, per scrittura, con la memoria... come nel caso del suo libro "Il veliero sul tetto", qui la nostra recensione, scritto durante il lockdown in cui gli unici viaggi possibili erano quelli della mente e dei ricordi.
Leggere un libro di Rumiz vuol dire altresì mollare le gomene per un viaggio nel tempo, nella storia, nella mitologia. Per certi versi, i suoi libri mi fanno pensare al "Finnegan's Wake" di James Joyce. Per lo scrittore irlandese il compendio di tutta la cultura, la storia, il sapere, l'identità di un popolo può estrinsecarsi nella lingua: per questo lo scrittore ha reinventato ogni parola inglese con radici greche, latine, gaeliche, antico-germaniche, italiane, francesi (più di 40 le lingue che sono state riconosciute nel libro), inserendo nelle sue poche sillabe, riferimenti a mondi diversi, in una sorta di ibridismo linguistico-culturale. Paolo Rumiz adotta una tecnica simile dal punto di vista narrativo e qualsiasi elemento del viaggio, una sosta in un porto, una cena in una locanda, un incontro, un imprevisto, una porzione di cielo, un'onda di mare diventa pretesto per spingere la narrazione verso lidi lontani, un ibridismo stavolta narrativo-culturale. Una lunga premessa la mia che potrebbe essere valida per tutti i libri di questo autore triestino, i cui natali, nella città più "lontana" dall'Italia che si possa immaginare, gli forniscono le stigmate stesse della frontiera, condicio sine qua non al desiderio di oltrepassare i confini. Per conoscere il mondo che c'è là fuori. Una spinta che per Rumiz è diventata un imperativo e fonte stessa di tutta la sua scrittura.
In "Canto per l'Europa" Paolo Rumiz fa un passo successivo e utilizza il melting pot non solo sul piano narrativo, bensì al livello stesso della scrittura che non è prosa, non è poesia, bensì una commistione di entrambi gli stili. A dettare il ritmo e l'andatura è il verso "italico" per eccellenza, l'endecasillabo, che nel suo ondeggiare di undici sillabe si presta a incarnare il moto ondoso del mare, elemento principe di tutto il viaggio. Il testo, come dice il titolo stesso, è un vero e proprio canto. Si tratta, in effetti, di una sperimentazione narrativa ardita, e per certi versi un po' rischiosa. Rumiz non è nuovo a tali fughe in avanti, dal punto di vista linguistico. Come non ricordare la deliziosa ballata "La cotogna di Istanbul"? Se però in quest'opera la purezza dell'endecasillabo e la compiutezza circoscritta del racconto davano un esito narrativo estremamente piacevole, in "Canto per Europa", l'intreccio tra prosa e poesia applicato alla grande vastità dell'argomento trattato è meno convincente. Non è un libro per tutti, sicuramente. La lettura ad alta voce in forma di rappresentazione teatrale, che peraltro Rumiz già sta facendo, certamente rappresenta un beneficio. Chissà, forse una scrittura in prosa, con incursioni poetiche più delimitate e circoscritte a specifici momenti narrativi, avrebbe dato maggiore equilibrio. Ma alla fin fine si tratta essenzialmente di gusti personali...
Il libro racconta di un viaggio per mare, reale, compiuto da Rumiz in compagnia di Petros, greco d'origine e gallese d'adozione, Ulvi turco di madre tedesca e Sam, francese askenazita, un gruppo che già nel suo sangue tocca i confini d'Europa, da Nord a Sud, da Est a Ovest. La barca con la quale solcano le acque dell'Egeo e del Mediterraneo si chiama Moya, è stata costruita nel 1910 e scruta le onde con i suoi occhi dipinti sulla prua, alla maniera delle imbarcazioni greche e fenicie.
Durante una sosta sulle coste del Libano una ragazza siriana, in fuga dalla guerra, si precipita sull'imbarcazione e con un gesto imperioso indica agli attoniti uomini a bordo il grande mare aperto. Tutta la narrazione sarà quindi il racconto del ritorno in Italia, un viaggio che per i quattro uomini sarà un nòstos, per la ragazza invece l'alba di un nuovo inizio. Dal Libano alla Turchia, dalla Grecia all'Italia un lungo viaggio per il nostro pelago per offrire un nuova vita alla clandestina di bordo, dal nome evocativo, Evropa (più avanti la v si addolcirà in u), che porta con sé una lunga storia di dolore e di soprusi. Ecco che il viaggio di Evropa diventa la nuova reificazione del mito di Europa, principessa fenicia di rara bellezza che infiammò d'amore Zeus, il quale, per rapirla, si trasformò in un toro bianco e in tali sembianze la portò a Creta.
D'ora in avanti tutto il viaggio si svolgerà, quasi in un flusso onirico, su due strati, il reale e il mitologico. Un doppio livello a cui fa da ideale contrappunto quella scelta a cui si accennava precedentemente di una lingua che sta a metà tra il raccontare e il poetare. E mentre il livello concreto del viaggio verrà narrato con la lingua marinaresca dei portolani, delle mappe geografiche, delle guide nautiche, dei lupi di mare, l'approssimarsi di Evropa alle coste d'Europa assumerà su di sé gli accenti di Omero, di Dante, della Bibbia, della mitologia greca, di Kavafis, di Al-Idrisi, l'eco del canto dei muezzin o degli strumenti suonati di notte nel deserto. Riferimenti che si rincorrono riga dopo riga, o per meglio dire verso dopo verso, strofa dopo strofa. Un percorso durante il quale il lettore, novello rabdomante, si divertirà a ritrovare echi di conoscenze lontane o scoprirà perle mai conosciute prima.
La Grecia delle isole sfiorava pericolosamente la Turchia con istmi che i fuggiaschi dall'Oriente attraversavano ancora a migliaia. / E Moya in quelle acque inquiete andava / cucendo come punti di sutura tra le terre dell'alba e del tramonto / provocatoriamente veleggiava su rotte fatte apposta per sancire l'inseparabilità dei due mondi. / Ci tenevano d'occhio le moschee ricostruite su resti di chiese, erette a loro volta sulle pietre di templi precedenti o sinagoghe. (p. 61)
Non mancano in tutto ciò riferimenti al presente, dall'incontro-quasi-scontro con una mastodontica nave da crociera ai fuochi che hanno devastato la Grecia. Fino alle terrificanti visioni di teschi affondati, di abiti e oggetti personali galleggianti nel mare, di bambini morti nelle acque, che riportano al dolore delle migrazioni e delle rischiosissime traversate su bagnarole verso le coste europee, simbolo di salvezza.
Fluttuando con le pinne scese ancora / verso teschi con alghe per capelli e il ghigno di mandibole abitate dalla lingua urticante delle attinie. / Sulla sabbia un barcone rovesciato / si era fatto moschea per un esercito di artritici paguri genuflessi. / Fu allora che sul fondo dell'Egeo si disegnò un arcipelago d'ombre / Sam si girò impaurito verso l'alto / e li vide. All'inizio non capì: sembravano immondizie alla deriva, sospese tra fondale e superficie sotto le bianche medaglie di spuma. / I corpi dei bambini naufragati / andavano in un banco taciturno come stracci buttati alla rinfusa / erano "oltre" e già ci guardavano con occhi come bolle di sapone. (p. 121)
Rimane un libro da leggere anche e soprattutto in un momento come questo nel quale il vento gelido dell'Est porta sull'Europa l'alito fetido della guerra. Conducendo nelle nostre terre, unite da un'idea nata su un'isola, nella Ventotene di Spinelli, altri profughi in fuga, proprio come la ragazza siriana, dalla follia umana. Perché troppo spesso la Storia non è affatto "magistra vitae".
"Togli il fermaglio e sciogliti i capelli, Evropa. Il nostro mondo avrà il tuo nome". Così le disse Petros. E poi a noi: "Ora capisco, amici. Questa terra è il miraggio di chi non la possiede, di chi traversa il mare con fatica. Forse il sogno di chi viene respinto, non di chi l'abita, sazio, da secoli. Da oggi sia chiamata come lei" (p. 168)
Sabrina Miglio