Hidden Valley Road. Nella mente di una famiglia americana
di Robert Kolker
Feltrinelli, 17 marzo 2022
Traduzione di Silvia Rota Sperti
pp. 441€12,99 (ebook)
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Hidden Valley Road, California, metà secolo scorso. La famiglia Galvin è la personificazione del sogno americano, una famiglia perfetta: Don, il padre, è un ufficiale dell’esercito e un accademico di successo. La madre, Mimi, è la classica casalinga americana degli anni Sessanta: paziente, dedita ai figli e al marito. Sembrano, almeno sulla carta, la coppia perfetta: entrambi ferventi cattolici, proiettati con determinazione verso la perfezione, o quella che loro considerano tale. In principio di questo, dunque, metteranno al mondo dodici figli: dieci maschi e due femmine.
I "ragazzi", come li chiamava Don, erano
intelligenti, svegli e lanciati verso una carriera folgorante (musicale,
sportiva o accademica); del resto, come i genitori si aspettavano da loro.
Qualcosa, però, cambia quando il primo, Donald, entra nella fase adolescenziale.
Non è più il ragazzo brillante di un tempo, ma diventa irascibile,
frequentemente violento e paranoico. Da questo momento, la famiglia Galvin non
sarà più la stessa: nel giro di pochissimi anni, appena dieci, ad altri cinque
figli (Jim, Peter, Matthew, Joseph e Brian) accadrà la stessa trasformazione e
a tutti sarà poi diagnosticata la schizofrenia.
In una spirale che non lascerà scampo a nessuno di loro, i sei figli iniziano ad avere comportamenti bizzarri, aggressivi e fobici. Non erano rari, infatti, episodi di violenza: vivendo sotto lo stesso tetto, la bomba esplodeva alla minima cosa. Accade così che Donald, il primogenito, e Jim, il secondogenito, picchino selvaggiamente i fratelli minori, mandandoli all’ospedale oppure Donald, in preda ad allucinazioni, porti in giardino tutti i mobili della casa, o, ancora, che Brian, il quartogenito, si denudi a casa di amici perché creda di essere ricoperto da insetti.
L’idillio famigliare dei Galvin e
il sogno di una famiglia perfetta iniziano a disgregarsi, entrando in un
vortice senza uscita. Siamo, infatti, all’inizio degli anni Sessanta, vale a
dire negli anni in cui la psichiatria muoveva i primi passi per comprendere
questo disturbo mentale. Gli anni in cui si scontravano psichiatri, biologi,
ricercatori e ognuno di essi proponeva la propria soluzione: alcuni sostenevano
i trattamenti farmacologici, altri i ricoveri coatti, altri, ancora, interventi
chirurgici (sterilizzazione del malato o la lobotomia), ma nessuna di queste
“terapie” era la soluzione definitiva al problema dei Galvin.
L’intera battaglia della famiglia rispecchia anche, velatamente, la storia dello studio della schizofrenia –una storia che per decine di anni ha preso la forma di una lunga contesa non solo su cosa provochi la malattia ma su cosa realmente essa sia. (p. 18)
Peraltro, i genitori, in
particolare la madre, non riuscirono mai a rinunciare al sogno di avere la
famiglia perfetta, nonostante l’evidenza fosse sotto gli occhi di tutti. Così
precipitarono sempre di più verso l’abisso, fatto di reparti psichiatrici,
Torazina (potente farmaco antipsicotico), elettroshock e litio (stabilizzatore
di umore). Per Mimi, il matrimonio con Don e la famiglia dovevano essere il suo
riscatto personale da un’infanzia e adolescenza tutt’altro che felice e fu questo
che le impedì di arrendersi all’evidenza. La sua reazione davanti ai disturbi
psicotici dei figli fu disarmante: tra minimizzare e mantenere le apparenze,
troverà sempre una giustificazione che non le farà, però, mai affrontare la
dura e dolorosa realtà.
[…] se ricoveravano Donald in qualsiasi posto somigliasse a un ospedale psichiatrico, le uniche certezze erano vergogna e disonore, la fine degli studi universitari di Donald, il guastarsi della carriera di Don, un’onta sulla reputazione della famiglia all’interno della comunità e infine il crollo di ogni possibilità per gli altri undici figli di avere una vita normale e rispettabile. (p. 99)
Il padre, dall’altra parte, usò
la scusa del lavoro per non affrontare la drammaticità della situazione e stare
lontano da quel caos il più a lungo possibile. Rinnegò perciò le difficoltà
della famiglia. Viaggiò e si dedicò alle sue passioni: tra tutte, la falconeria che prima della tragedia era l’attività di famiglia, e che poi diventò quasi lo
scopo di vita di Don.
Don Galvin era una figura così titanica nella vita dei suoi figli – il falconiere, l’intellettuale, l’eroe di guerra, l’agente dei servizi segreti e ora consulente di governatori e magnati del petrolio – che tutti e dieci i ragazzi in un modo o nell’altro crebbero con la convinzione che non sarebbero mai riusciti a eguagliarlo. (p. 143)
A occuparsi di tutto resta Mimi
che, non solo non si arrende all’evidenza, ma già dall’infanzia dei figli si
dimostra una profonda maniaca del controllo: i figli, tutti e dodici, avevano
ognuno i suoi compiti (chi stendeva il bucato, chi apparecchiava, chi rassettava).
Le educa così, come se fossero un esercito in miniatura: ad esempio, la
domenica impone un codice di abbigliamento che non permetteva eccezioni. Quello
di R. Kolker è il ritratto di una donna che si aggrappò con tutte le sue forze
a una realtà che non esisteva, ma che era, dopo le sei diagnosi, solo nella sua
mente.
Eravamo una famiglia esemplare, tutti ci consideravano un modello. E quando è cominciata questa storia ci siamo vergognati a morte. (p. 353)
E i figli non malati? Quelli a
cui non era stata diagnostica la malattia? Insomma, i restanti sei? Ognuno a
modo loro si distaccò dai fratelli e dai genitori. La maggior parte di essi trovò un’occupazione e una sistemazione a
migliaia di chilometri di distanza, ma quello che colpisce di più non è questo.
Alla fine, è una reazione umana quella di allontanarsi il più possibile da ciò
che è doloroso. Tutti e sei, però, vissero con la paura paralizzante di finire come
i fratelli, di essere colpiti anche loro da questa malattia. Così cercarono di
arginarla in qualche modo: con la psicoterapia, abbracciando la filosofia
hippie, oppure affidandosi al compagno o alla compagna. Tutto questo non
riuscirà a scacciare una domanda che risuonerà nelle loro menti per sempre:
quando toccherà a me? Quando diventerò pazza/o?
Michel Kolker traccia un viaggio
fra la narrativa e la saggistica: si alternano capitoli narrati a quelli di
storia della psichiatria. Questi capitoli servono sia a comprendere, ancora più
approfonditamente, cosa succede a questi ragazzi, sia a rallentare la lettura e
questo è necessario. La potenza delle loro storie ci costringe, ogni tanto, ad
allontanarsi da loro per riprendere fiato. Ci vuole, dunque, il giusto stato
d’animo per immergersi nelle loro vite, sapendo per di più che si tratta di una
storia vera. Kolker, infatti, ha condotto un lavoro di ricerca non indifferente
per raccontarceli: leggendo diagnosi e resoconti medici, ascoltando testimoni e
i diretti interessati. Non si tratta, però, di un mero raccontare le vicende,
Kolker va oltre la malattia mentale e ci fa piombare nelle loro dinamiche
famigliari ed è questo, forse, l’aspetto che colpisce perché queste dinamiche
sono l’inizio, il durante e la fine di queste persone. Chi lo vorrà affrontare,
troverà un libro che dona una maggiore consapevolezza sulla malattia mentale,
sulle sue cure e su quanti errori siano stati fatti in nome del progresso
scientifico. A tale proposito sono eloquenti le parole dell’ultima figlia, Mary-Lindsay:
Una delle conseguenze del convivere con la schizofrenia per cinquant’anni è che prima o poi la cura diventa dannosa tanto quanto la malattia. (p. 16)
Insomma, la famiglia Galvin
lascerà il segno a tutti quelli che ci s’imbatteranno. Oggi, dopo la lettura,
guardando la foto che li ritrae insieme sulla scalinata (Don in divisa, Mimi
incinta dell’ultima figlia, e i dieci ragazzi perfettamente pettinati e vestiti
in modo elegante), non posso fare a meno di provare un senso d’inquietudine nel
sapere come questa famiglia, all’apparenza così idilliaca, sia precipitata
all’inferno e forse non c’è immagine più esplicativa della loro storia.
Giada Marzocchi