«Anche lui potrebbe farlo. Smettere di parlare. Smettere di ricordare» così prende avvio la vicenda di Andreas Ban, protagonista dell'ultimo romanzo della scrittrice croata Daša Drndić, Belladonna. La tentazione di turarsi le orecchie, cucirsi le labbra (come scrive la Drndić) è forte dinnanzi agli orrori della storia: esercitare l'arte dell'oblio per salvaguardare la propria felicità o, quanto meno, la propria sanità mentale.
Ma non è quello che farò Andreas Ban, che rappresenta il trionfo della memoria, ricordare tutto, collezionare in modo maniacale quasi, con la tecnica del collage che crea il tessuto stilistico di questo romanzo, gli errori e gli orrori della storia, la sua e quella del continente europeo.
Andreas Ban
Ha già pensato a tutto, alla sua vita. In pile, in mucchi, ha ordinato i giorni, anni, nascite e morti, amori, quei pochi che ci sono stati, viaggi, molti, conoscenze, molte, drammi famigliari, le sue premure senza senso e le sue piccole battaglie ancor più senza senso, perlopiù perse, lingue, straniere e locali, paesaggi, tutto ha ordinato e classificato, e tutto questo bagaglio, questo carico ora inutile, l'ha legato con dello spago e sistemato negli angoli delle ampie stanze come se lo attendesse ancora un grande trasloco (p. 12).
La casa di Ban è "infestata" da fantasmi storici e familiari; in primo luogo quello di sua moglie Elvira, morta prematuramente, e di sua madre. La memoria di Ban è effettivamente fantasmatica, nel senso che i suoi ricorsi si presentano in modo disorganico, come apparizioni che non gli fanno compagnia, perché la solitudine di Ban appare irredimibile. Lui è un antieore di 75 anni, che si ritrova in una piccola città croata, che la scrittrice presenta così:
Si chiama Andreas Ban. È uno psicologo che non psicologizza più. È uno scrittore che non scrive più. È una guida turistica che non guida più nessuno da nessuna parte. È un nuotatore che non nuota da tanto tempo. Ha altri interessi che oggi non servono più a nessuno. Men che meno a lui stesso. (p. 20).
Andreas Ban è malato, afflitto da una malattia degenerativa alla colonna vertebrale. Il suo corpo è un correlato oggettivo della storia europea; il suo corpo si sta disgregando come si è disgregata la sua patria, lui è testimone di tanti orrori, a partire da quelli della seconda guerra mondiale, che include quelli commessi dai fascisti ustascia dello Stato Indipendente di Croazia, regime sostenuto dalle potenze dell'Asse.
Graficamente il testo presenta originali inserti fotografici, pittorici, semplici icone o disegni, che donano quell'effetto collage di cui parlavo, un racconto a zig zag - che talora a mio gusto rasenta una caotica deflagrazione - che mostra l'impossibilità di trovare una ratio, un logos ordinato e schematico che ci aiuta a comprendere e narrare gli eventi.
Daša Drndić mette sotto accusa anche gli intellettuali, colpevolmente silenziosi, appannati:
Andreas Ban aveva scritto della morta dell'intellettuale, ma siccome la maggioranza dei suoi colleghi al tempo difficilmente leggeva qualcosa che non riguardasse il proprio campo ristretto, alienato dalla realtà, mentre leggevano articoli che interessavano il loro campo molto nello specifico, in generale non avevano idea, o meglio non importava loro un fico secco di cosa succedesse nel mondo e non ci pensavano neanche a uscire dal proprio giardino. (p. 130).
Uscire dal proprio giardino e rammemorare è chiaramente l'ideale di intellettuale cui aspira Daša Drndić, rammemorare implica anche fare l'appello dei 2061 bambini ebrei dell'Aia, vittime innocenti. Ma vari elenchi (di oggetti, liste di persone, volti, fotografie) attraversano le pagine di Belladonna, rendendo la lettura talora poco scorrevole, eppure grumosa e densa, volutamente indigeribile. Si tratta di "salvare" ciò che la Storia ha travolto perché noi
Vorremmo credere che la nostra vita sia coerente, continua, con cuciture nascoste e tutto apparentemente levigato e costruito con logica. Le cuciture, tuttavia, sono ancor più evidenti dei tagli. Peggio, continuano a strapparsi, ancora e ancora. Questi sono ciò che si chiamano i momenti duri della vita; questi sono i tempi in cui si coglie di sfuggita la struttura divergente della vita dietro le cuciture e i tagli, quando invece di ciò a cui siamo abituati vediamo qualcosa che non è comprensibile, su cui non si può costruire niente che possa durare. (p. 412).
Andreas Ban è andato oltre e i suoi lettori sono entrati in quello che Daša Drndić chiama "lo specchio magico"; Belladonna è un romanzo coraggioso e radicale per il ruolo che assegna alla letteratura, di condurci oltre lo schermo, oltre le cuciture, negli strappi non rimarginati della Storia.
Deborah Donato