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Daniel Kehlmann con "Te ne dovevi andare" scrive un horror in bilico tra le percezioni del protagonista e le fantasie del lettore

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Te ne dovevi andare



Te ne dovevi andare
di Daniel Kehlmann
Traduzione di Monica Pesetti
Feltrinelli, febbraio 2022

pp. 96
€ 9,50 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)


Daniel Kehlmann è uno dei più talentosi scrittori austro-tedeschi del momento, ha all’attivo diversi libri, di cui uno La misura del tempo, in cui narra l’incontro tra il matematico Gauss e il geografo Von Humboldt a Berlino, è stato un best-seller mondiale, mentre il più recente Tyll è un romanzo filosofico sulla satira e i suoi buffoni. Una certa padronanza con materie molto concrete e una propensione verso la scienza non gli hanno tuttavia impedito di cimentarsi con una storia di fantasmi, ecco che a febbraio è uscito in Italia Te ne dovevi andare.


La trama è molto cinematografica, non a caso ne è stato tratto un film con Kevin Bacon, per la regia di David Koepp, uscito nel 2020, e narra di uno sceneggiatore che si ritira insieme alla moglie attrice e alla figlia di quattro anni in una casa isolata tra le montagne per scrivere il seguito del suo film di maggior successo. 

Il paesaggio è meraviglioso ma solo apparentemente invitante e rassicurante. L’uomo capisce subito che qualcosa non va, ha delle strane allucinazioni, non vede riflessa la sua immagine nella vetrata di fronte e perde la consapevolezza di ciò che è reale e ciò che non lo è. È come se d’un tratto ci fossero due identici protagonisti e l’uno diventasse indipendente dall’altro. A testimoniare questa sorta di sdoppiamento della dimensione reale c’è solo il block-notes e gli appunti di scrittura.

Ma non vedo me stesso. Nella stanza riflessa non c’è nessuno.

Con calma, guarda bene. Se guardi attentamente e scrivi tutto potrai […] (p. 36)

Il senso di straniamento e la perdita di contatto con la realtà sono ancor più angoscianti in quanto narrati in prima persona e in questo smarrimento anche la punteggiatura, i pensieri, la frase perdono identità, restano a mezz’aria, sospese, senza più una fine e un inizio. Fluttuanti.

Più il protagonista capisce che la realtà attorno a lui sta lasciando posto ad altro, più la sua relazione va in frantumi, come se il definitivo perdersi dipendesse anche dal lasciare andare l’idea che egli ha dell’altra e la disgregazione della sua famiglia e die rapporti affettivi che la tengono in piedi avvenisse contemporaneamente alla perdita di sé.

Nessuna stella, e neanche una luce nella valle. Solo la scia luminosa di un treno che passa. Susanna è già andata a letto.

A cena mi ha chiesto due volte cosa avessi, ma cosa avrei dovuto dire? Perciò ho detto: Che vuoi che abbia, e siccome mi fissava scettica ho aggiunto: Cos’hai tu, piuttosto, e lei ha detto: Niente, ma tu sei strano! E siccome non sopporto quel tono ho detto: No, tu sei strana! (p. 40)

In realtà nel libro il protagonista è l’unico a non avere un nome, si identifica di volta in volta con quello che fa e non con chi è. Uno sceneggiatore, un padre, un marito, un turista, un uomo nell’ombra che fugge e che in quell’ombra non ritrova se stesso ma finisce col perdersi per sempre, estraneo a se stesso e ai rapporti che lo tenevano in vita rispetto agli altri. Un meccanismo ben congegnato in cui la paura convive tra ciò che ci spaventa fuori da noi e ciò che si spegne dentro di noi.


Samantha Viva