Suonò il campanello, troppo educatamente, ma in qualunque modi suoni un campanello, vi sono situazioni in cui è sempre male che suoni, meglio che nessuno si faccia vivo, sono tutti odiosi. Ma l'uomo al quale fu costretto ad aprire la porta dato il suono educato del campanello, era odioso al di là del prevedibile. (p.30).
Siamo al secondo capitolo ed entra in scena Duca Lamberti, sempre burbero e asciutto, ma dalle intuizioni geniali e dall'umanità mascherata ma solida e generosa. Il commissario Carrua, che passa le informazioni necessarie per le indagini e che prova a dissuadere senza molta convinzione Lamberto a ficcarsi nei pasticci, traccia un illuminante parallelismo tra la carriera di medico e quella di poliziotto:
Un medico è il poliziotto del corpo, la malattia, quasi sempre, è un delinquente che bisogna scovare, seguire traccia su traccia, tu hai potuto essere un buon medico perché sei un poliziotto, come tuo padre. (p. 37).
Il nostro medico-poliziotto, stavolta, seguirà la pista di questa intricata vicenda di annegati, traffico di droga e armi, che lo porterà a confrontarsi con una pericolosa organizzazione criminale. Di questa organizzazione fanno parte una serie di personaggi loschi, avidi, imbroglioni, descritti con maestria dalla penna di Scerbanenco, con lucida e amara consapevolezza delle debolezze e della ferocia umana. Questi personaggi si tradiscono a vicenda, sono loro i "traditori di tutti", interessati solo al profitto a qualunque costo.
La storia è piena di colpi di scena, il climax ci porta a rincorrere le pagine in attesa dello scioglimento, ma lo stile pur essendo asciutto e rapido, non è disadorno. Trovo affascinante, invece, l'uso degli aggettivi e degli avverbi in un romanzo in cui «le auto passavano con pigra frequenza» e i personaggi «mangiano e bevono vagamente alla paesana».
Scerbanenco è il padre del noir all'italiana, si ripete da ogni parte, ma è anche il Simenon italiano, direi, dove con questo parallelismo si intende far riferimento non solo alla scrittura scarna ma sorprendentemente densa ed evocativa, ma anche alla capacità di affrescare con pochi tratti il popolo, le parti più buie e nascoste della città, gli ultimi.
Ma Scerbanenco utilizza anche il flusso di coscienza, che diviene linguaggio di rabbia e cinismo nel momento in cui ci porta a conoscere le osservazioni di Duca Lamberti ed ha perfettamente ragione Cecilia Scerbanenco, nella prefazione, quando scrive che il padre
ha mostrato quanto fosse possibile osare con l'italiano, facendo saltare le regole sintattiche e di punteggiatura, creando una lingua adatta all'azione e all'ira. Molti autori di crime fiction hanno seguito questa lezione, abbandonando gli stili letterari per sfruttare tutta la ricchezza di significato dell'italiano quotidiano, restituendo così il delitto alla vita vera. Quando leggo critiche allo stile di mio padre, per esempio che era "trascurato", o "poco colto", mi pare sempre che non si comprenda la modernità di questa sua coraggiosa scelta, una scelta tra l'altro difficile, perché l'italiano è, in sé, una lingua letteraria.
Tutt'altro che trascurato appare lo stile di Scerbanenco e invece la forza di Traditori di tutti è avere aperto una strada nel panorama giallista nazionale e, al contempo, mostrare ancora la sua freschezza e intrigante attrattiva.
Deborah Donato